Ambasciatori del cielo

Ambasciatori del cielo

di Ettore Panizon

 

Parlando in prima persona di coloro che sono stati salvati dal sacrificio di Gesù, Paolo scrive ai Corinzi dicendo loro di essere ambasciatori di Cristo.

Noi dunque facciamo da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro; vi supplichiamo nel nome di Cristo: siate riconciliati con Dio.
2Corinzi, 5:20

Come tutti gli ambasciatori, anche noi cristiani viviamo in una terra straniera, dove rappresentiamo la nostra patria. Mentre, però, gli ambasciatori delle nazioni di questa terra hanno da qualche parte una loro patria terrena, noi cristiani sulla terra siamo "forestieri e pellegrini" (Ebrei, 11:13). La nostra patria – come del resto il nostro Padre – non è sulla terra, ma in cielo (Matteo, 23:9).

nostra patria è il cieloLa nostra patria è il cielo e noi siamo ambasciatori del cielo, rappresentiamo cioè il figlio dell’uomo che è in cielo (Giovanni, 3:13), cioè la natura celeste dell’uomo.

La parola Cristo, traslitterazione del greco Christòs, traduce – già dalla versione ellenistica dei LXX – l’ebraico Mashìach che significa letteralmente "Unto". Nella Bibbia, l’unzione è simbolo di regalità e di sapienza divina.

Sapienza e regalità sono intimamente legate. Salomone, trovandosi a regnare in giovanissima età, ha chiesto a Dio sapienza e l’ha ottenuta (1Re, 3:5-15). Nel libro dei "Proverbi di Salomone, figlio di Davide, re d’Israele" (Proverbi, 1:1), la Sapienza dice espressamente:

Per mio mezzo regnano i re, e i prìncipi decretano ciò che è giusto.
Proverbi, 8:15

Infatti, secondo la rivelazione ricevuta da Salomone, re è colui il cui cuore è nelle mani di Dio.

Il cuore del re, nella mano del SIGNORE, è come un corso d’acqua; egli lo dirige dovunque gli piace.
Proverbi, 21:1

La regalità del nostro agire dipende infatti da quanto profondamente, nei nostri pensieri, ci lasciamo guidare dal SIGNORE (Colui che è nell'eternità). La sapienza del Messia, Re di tutti i re, è la sapienza nella sua forma più pura, anzi l'unica sapienza veramente pura.

L’apostolo Giacomo parla infatti di due tipi di sapienza, una che viene dall’alto, un’altra che è della terra:

Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e sapienza. Ma se avete nel vostro cuore amara gelosia e spirito di contesa, non vi vantate e non mentite contro la verità. Questa non è la sapienza che scende dall'alto; ma è terrena, animale e diabolica. Infatti dove c'è invidia e contesa, c'è disordine e ogni cattiva azione. La sapienza che viene dall'alto, anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia. Il frutto della giustizia si semina nella pace per coloro che si adoperano per la pace.
Giacomo, 3:13-18

Il regno di Dio è un regno di pace: non è come gli altri regni di questo mondo, sempre in conflitto gli uni con gli altri. Non deve difendere nessun territorio, nessun interesse terreno.

Quando Pilato, governatore romano, interrogò il Signore riguardo al suo regno, Gesù rispose:

Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
Giovanni, 18:35-36

Per essere ambasciatori di Cristo, perché Dio possa cioè esortare gli uomini per mezzo nostro, anche noi dobbiamo essere unti della sua stessa unzione, avere cioè la stessa pazienza e la stessa umiltà di Cristo. Gesù non ha insegnato complicate dottrine. Ai suoi discepoli ha detto di ricevere il suo carattere: la sua mansuetudine e la sua umiltà di cuore.

Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché io sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre;
Matteo, 11:29

Lo stesso invito Paolo lo rivolge come raccomandazione ai Filippesi che avevano creduto alla parola di Dio, dicendo loro: La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino.
Filippesi, 4:5

Ora questa sapienza, questa umiltà e questa mansuetudine non si ricevono senza che da parte nostra ci sia un’azione cosciente e continua, un impegno quotidiano e costante.

Il principio della sapienza è: acquista la sapienza; sì, a costo di quanto possiedi, acquista l’intelligenza.
Proverbi, 4:7

L’invito non è rivolto ai ricchi e ai facoltosi, ma piuttosto a coloro che sanno di avere bisogno di ricevere e imparare tutto da Dio (quelli che Gesù chiama "poveri in spirito" e che dice essere veramente beati, cfr. Matteo, 5:3), e per ricevere e imparare sono disposti a lasciare tutto quello che hanno.

O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte!
Isaia, 55:1

L’unzione di Dio non si può comprare con le nostre opere (cioè con il nostro lavoro o il nostro denaro, come pensava quel Simone che dopo essersi convertito dalle arti magiche offrì del denaro a Pietro per ricevere lo Spirito Santo, cfr. Atti, 8:9-20), ma bisogna ugualmente dare qualcosa in cambio, anzi non solo qualcosa, ma tutto quello che abbiamo o crediamo di avere.

Diceva poi a tutti: Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua.
Luca, 9:23

Insomma, anche se i tesori di Dio non si possono comprare con i soldi, non è che non costino niente e che ce ne possiamo impossessare in un giorno. Non si tratta di comprare con i nostri beni, ma si tratta comunque di acquistare "a costo" dei nostri beni. La Bibbia ci parla infatti di un acquisto che richiede determinazione, impegno e anche tempo.

Nella parabola delle dieci vergini, raccontata nel discorso in cui Gesù parla degli ultimi tempi e del suo ritorno, le cinque vergini che chiama stoltesono andate ad acquistare l'olio all'ultimo momento (appunto perché mancavano della sapienza celeste simboleggiata dall'olio), ma l'ultimo momento era ormai troppo tardi, perché quando sono ritornate con l’olio la porta era già stata chiusa e non è stata riaperta, anzi il Signore ha detto loro "In verità, io non vi conosco" (cfr. Matteo, 25:8-12).

La parola greca usata da Paolo per indicare l’azione di fare da ambasciatori in 2Corinzi, 5:20 è infatti presbeuo, verbo che significa innanzitutto "essere anziani". Per acquistare il carattere di Cristo ci vuole l’opera di tutta una vita. Il primo passo non è sufficiente perché sia compiuta tutta la strada, che è fatta di rinunce quotidiane per amore di Cristo.

Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà.
Matteo, 16:25

Non possiamo avere la sapienza vera se non smettiamo di cercare quella apparente; non possiamo desiderare l’unzione di Dio se non smettiamo di desiderare le ricchezze terrene (Matteo, 6:24; Luca 16:13). Viceversa, nel momento in cui non diamo più importanza a quello che è solo per questo tempo e consideriamo invece che il nostro vero tesoro è in cielo, acquistiamo una natura nuova, celeste. Non lottiamo più per le cose per cui lottano coloro che abitano sulla terra, perché la nostra vera eredità è in cielo e non ce la può togliere nessuno.

Vendete i vostri beni, e dateli in elemosina; fatevi delle borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nel cielo, dove ladro non si avvicina e tignola non rode. Perché dov’è il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore.
Luca, 12:33-34

Il nostro tesoro in cielo cresce di importanza nella misura in cui diminuisce il nostro tesoro terreno, e viceversa. Ma come può avvenire tutto ciò? La risposta si trova anche nello stesso passo in cui Paolo scrive ai Corinzi di essere ambasciatori di Cristo: il suo e il nostro sacrificio vivente, la sua e la nostra morte per amore.

… infatti l’amore di Cristo ci costringe, perché siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono; e ch’egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per sé stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro.
2Corinzi, 5:14-15

Non possiamo essere ambasciatori di Cristo se non veniamo trasformati dal suo amore, ma siccome "l’amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori" (Romani, 5:5) possiamo prendere coraggio e operare perché la volontà di Dio sia fatta anche qui in terra come è fatta in cielo.

Se crediamo che Cristo è morto proprio per noi, allora il nostro modo di vivere e di guardare alla vita cambierà completamente, perché non vorremo più vivere per questo mondo, ma per colui che ci aspetta in cielo. Vivendo per il cielo, non avremo più la tensione e l'aggressività che vengono dalla preoccupazione di farsi largo in questa vita.

Se invece non crediamo alla promessa di Dio, prima o poi, in un modo o nell’altro finiremo per combattere per la nostra vita, e allora davvero Cristo non sarà morto per noi.

Per questo, la morte di Gesù per noi è il pane quotidiano, di cui si nutre la nuova creatura celeste che nasce quando cominciamo a credere e cresce nella misura in cui perseveriamo nella fede.

Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me, e io in lui. Come il Padre vivente mi ha mandato e io vivo a motivo del Padre, così chi mi mangia vivrà anch’egli a motivo di me. Questo è il pane che è disceso dal cielo; non come quello che i padri mangiarono e morirono; chi mangia di questo pane vivrà in eterno.
Giovanni, 6:55-58

Mangiare Cristo significa vivere di lui e della grazia che abbiamo in lui.

Tutti gli uomini che hanno un minimo di senno intrattengono un qualche rapporto con Dio. Anche quelli che si dichiarano agnostici, o addirittura atei, lo fanno, rispettivamente, per ammettere la loro ignoranza, o per protestare contro l’incoerenza che credono di vedere nel Creatore (si dimostrano in questo forse più onesti di quanti si professano credenti solo per conformismo, negando però dentro il loro cuore e con la loro vita l’esistenza di un Dio sovrano; cfr. Salmi, 14:1).

Ma una cosa è sapere che Dio c’è, tutt’altra cosa conoscerlo e amarlo (Giacomo, 2:19 dice che anche i demoni sanno che esiste Dio, ma tremano).

Se qualcuno pensa di conoscere qualcosa, non sa ancora come si deve conoscere; ma se qualcuno ama Dio, quello conosce.
1Corinzi, 8:2-3

Per amare Dio, occorre avvicinarsi a lui, cosa che per gli uomini risulta estremamente difficile fare, principalmente per due ragioni: una reale e una presunta. La prima perché sanno di non essere sufficientemente giusti, la seconda perché pensano che non lo sia Dio, che giudicano incapace di sentire il loro dolore. A questa seconda difficoltà, la Bibbia risponde che sono i nostri peccati che ci separano da Dio, portandoci a sentirlo lontano e a domandarci se ci ami davvero (Malachia, 1:2).

Ecco, la mano del SIGNORE non è troppo corta per salvare, né il suo orecchio troppo duro per udire; ma le vostre iniquità vi hanno separato dal vostro Dio; i vostri peccati gli hanno fatto nascondere la faccia da voi, per non darvi più ascolto.
Isaia, 59:1

Ma Dio non era certo insensibile alla nostra disperata condizione ed è anzi proprio per togliere questa separazione che Dio ha lasciato che suo figlio fosse messo in croce. Dando la sua vita per i nostri peccati, Gesù ci ha fatto sapere quanto immensi siano l’amore e la giustizia di Dio, che ha mandato il suo figlio unigenito a prendere su di sé la nostra ingiustizia, affinché noi ingiusti e impuri potessimo avvicinarci a Lui giusto e tre volte santo. Il sacrificio di Gesù risponde così anche alla prima difficoltà, perché con il suo sangue Cristo ha coperto (espiato, il termine ebraico per "espiazione", kippur, esprime chiaramente il senso di questa "copertura") il nostro peccato e la nostra ingiustizia, così che ora possiamo presentarci nel luogo santissimo dove un tempo poteva entrare solo il Sommo Sacerdote, una volta l'anno (appunto il giorno dell'espiazione, yom kippur; cfr. Levitico, 16).

Se ci ricordiamo di queste cose, allora sparisce ogni nostro vanto e ogni nostro presunto diritto di goderci la vita senza pensare a quella degli altri e al senso di quella di ciascuno.

Per acquistare la sapienza che viene dal cielo è necessario - e sufficiente - stare con Cristo (Giovanni, 15:1-10). Perché, se restiamo in comunione con lui, ci teniamo lontani dalle cose che sono in questo mondo (il desiderio della carne, il desiderio degli occhi e la presunzione di questa vita), cose che la parola ci dice di non amare perché non ci possiamo trovare l'amore del Padre eterno (1Giovanni, 2:15-16). Se invece accettiamo l'invito della stoltezza (Proverbi, 9:13-18) e ci lasciamo attirare dalle cose del mondo, automaticamente rifiutiamo l'invito di Cristo e ci allontaniamo dall'amore di Dio, fino al punto che cominceremo a dubitare di questo amore e perderemo ogni certezza interiore.

È questa mutua esclusione della via naturale (terrena) e di quella spirituale (celeste) che ci mette davanti alla scelta di cui parlano tante Scritture, scelta che concretamente si traduce nell'alternativa in cui ci troviamo costantemente: perdere o riscattare il tempo (1Pietro, 4:3, Efesini, 5:16).

Ascoltiamo dunque la voce del Padre che ci incoraggia e ci invita anche attraverso l'apostolo Pietro:

Carissimi, vi esorto, come stranieri e pellegrini, ad astenervi dalle carnali concupiscenze che danno l’assalto contro l’anima...
1Pietro, 2:11

Se sentiamo che è Dio che ci invita e non induriamo il nostro cuore, riceviamo da Dio stesso questa parola che ci viene rivolta e che non tornerà indietro senza avere compiuto ciò che è stata mandata a fare (Isaia, 55:11): ci trasformerà e ci equipaggerà per diventare ambasciatori della pace con Dio tra gli uomini, secondo la sua volontà.