L'invidia, la gelosia e l'amore di Dio

L'invidia, la gelosia e l'amore di Dio

di Ettore Panizon

 

L'invidia è uno dei primi sentimenti dell'uomo. La vediamo manifestarsi molto presto, già subito dopo che Adamo ed Eva sono stati allontanati dal giardino dell'Eden: Caino, primogenito di Adamo, è anche il primo esempio di uomo invidioso.

“Il SIGNORE guardò con favore Abele e la sua offerta, ma non guardò con favore Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato, e il suo viso era abbattuto.” (Genesi, 4:4-5). Il nome di Caino (Qayin) deriva da un verbo che significa “acquistare” (Genesi, 4:1) e che ha una radice molto vicina a quella che significa “invidiare”. La radice che significa “acquistare” è difatti qanah, mentre quella che significa “invidiare” è qana'. Ma oltre alla vicinanza delle due radici, tra i due verbi possiamo anche vedere una stretta connessione spirituale. Caino invidiò Abele, il cui sacrificio era stato gradito da Dio, invidiò, cioè, il favore di Dio che non aveva ottenuto e che voleva acquistare.

La Bibbia narra di vari casi di invidia, in molti dei quali questo sentimento porta addirittura all'omicidio, almeno a tentarlo o a meditarlo. Vediamo che i fratelli di Giuseppe lo invidiarono e lo vendettero come schiavo (Genesi, 37:11 e Atti, 7:8); che Saul invidiò i successi di Davide (1 Samuele, 18:6-8) e tentò più volte di ucciderlo (1 Samuele, 18:25, 19:1 e 10); che i Farisei invidiarono Gesù e lo diedero in mano ai Romani perché lo condannassero a morte (Marco, 15:10).

Ma l'invidia, nella Bibbia, non è rimproverata solo indirettamente. Dai dieci comandamenti è più che evidente che l'invidia verso il prossimo è un sentimento contrario alla volontà di Dio: “Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo” (Esodo, 20:17). Nei Salmi e nei Proverbi non solo è detto più volte di non invidiare gli empi (Salmi, 37 e 73; Proverbi, 3:31, 23:17 e 24:19), ma anche parlando in generale l'invidia è chiamata “la carie delle ossa” (Proverbi, 14:30).

Eppure l'invidia riappare e continua a riapparire, anche in mezzo ai cristiani (Filippesi, 1:15; 1 Corinzi, 3:3; Romani, 13:13). Si tratta evidentemente di un sentimento molto ben radicato nella natura umana.

L'invidia si avvicina anche alla gelosia. Saul non solo invidiò Davide, ma divenne anche geloso del regno che sentiva di avere perduto.

In ebraico, la gelosia si chiama addirittura con la stessa parola (qin'ah) che si usa per nominare l'invidia.

Nel testo greco del Nuovo Testamento, a questi due sentimenti corrispondono due parole diverse, rispettivamente phthonos e zelos. Phthonos (affine a phtheiro, un verbo che significa “corrompere”) ha quasi sempre il senso peggiorativo di invidiare, mentre zelos, è spesso usato, come vedremo, per riferirsi oltre che alla gelosia carnale anche allo zelo spirituale. Ma nelle varie traduzioni (a cominciare da quella dei Settanta, utilizzata dagli autori dei libri del Nuovo Testamento) questa corrispondenza non è sempre perfettamente rispettata.

Entrambi i termini, comunque, sono usati nell'elenco che definisce le opere della carne: “… fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosie (zeloi), ire, contese, divisioni, sètte, invidie (phthonoi), ubriachezze, orge e altre simili cose; circa le quali, come vi ho già detto, vi preavviso: chi fa tali cose non erediterà il regno di Dio.” (Galati, 5:19-21). Gelosie e invidie sono il risultato del desiderio della carne, che opera sempre in vista di un interesse, verso cui orienta anche i più intensi sentimenti. Pensieri e sentimenti che non producono pace, ma spesso violenza. Come è scritto poche righe più sopra, “…se vi mordete e divorate gli uni gli altri, guardate di non essere consumati gli uni dagli altri” (Galati, 5:15).

Bisogna quindi liberarsi a tutti i costi di questi sentimenti. E Dio ha certamente provveduto un modo per farlo. Infatti “…Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscirne, affinché la possiate sopportare.” (1 Corinzi, 10:13). Non ha senso, quindi, giustificarsi adducendo il proprio temperamento o la propria cultura. Nella parola di Dio troviamo il costante preavviso di quale sia il destino di chi cammina “secondo la carne” (seguendo cioè la natura umana egoista), ma troviamo anche la via per avere la vita. Paolo, scrivendo ai Galati, aggiunge difatti alle parole sopra citate: “Io dico: camminate secondo lo Spirito e non adempirete affatto i desideri della carne.” (Galati, 5:16). E ai Romani dice: “Così dunque, fratelli, non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne; perché se vivete secondo la carne voi morrete; ma se mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete” (Romani, 8:13). E ancora, sempre ai Galati: “Non vi ingannate; non ci si può beffare di Dio; perché quello che l'uomo avrà seminato, quello pure mieterà. Perché chi semina per la sua carne, mieterà corruzione dalla carne; ma chi semina per lo Spirito mieterà dallo Spirito vita eterna.” (Galati, 6:7-8)

La parola di Dio, che è spirito e vita (Giovanni, 6:63), ci dà l'intelligenza e la forza per evitare il male e, concretamente, rimuovere dal nostro cuore i pensieri e i sentimenti che ci divorano (non importa quanto li consideriamo nostri).

La nostra “parte terrena”, quella che dobbiamo mettere a morte se non vogliamo morire, ancora secondo le parole dell'apostolo Paolo, consiste in “fornicazione, impurità, passioni, desideri e cupidigia, che è idolatria.” (Colossesi, 3:5). Anche scrivendo agli Efesini, Paolo insiste sullo stesso punto: “Come si addice ai santi, né fornicazione, né impurità, né avarizia sia neppure nominata tra di voi (…) Perché, sappiatelo bene, nessun fornicatore o impuro o avaro (che è un idolatra) ha eredità nel regno di Cristo e di Dio.” (Efesini, 5:3-5).

Fornicazione è una strana parola che ricalca il termine greco porneia (da pornè, “prostituta”) che indica l'atto di dare il proprio corpo per un rapporto carnale fuori dal matrimonio, fuori cioè dall'unico contesto in cui quest'atto può essere veramente puro da qualsiasi interesse (sottolineo il può, perché se la purezza fosse garantita dal solo patto matrimoniale, l'apostolo non avrebbe sentito il bisogno di aggiungere all'elenco la parola impurità). Cupidigia o avarizia (nel testo greco a entrambe queste corrisponde pleonexia, cioè “[voler] avere [sempre] di più”) sono chiamate esplicitamente idolatria. Perché l'oggetto del nostro desiderio (sia questo rivolto a una cosa o a una persona) diventa per noi ciò che consideriamo la fonte del nostro bene, una specie di dio. Ma questa è solo una nostra idea e di quella cosa o persona finiamo con l'amare in realtà solo l'immagine, cioè il pensiero del suo possesso, dell'illusoria possibilità di disporne a piacimento.

Più che tra invidia e gelosia, la parola di Dio marca quindi la differenza tra due tipi di amore. Uno egoista e tendenzialmente idolatra; l'altro altruista e diretto verso (oltre che originato da) il Signore Iddio, che è Spirito. Uno è l'amore carnale, l'altro è l'amore spirituale.

Da questo punto di vista, effettivamente, la differenza tra invidia e gelosia non è così essenziale. In un caso si tratta del desiderio di ciò che non si possiede ancora, nell'altro del desiderio di ciò che si possiede già. Ma, a parte l'averne o non averne diritto, l'orientazione del desiderio rimane sempre la stessa.

Se avremo lo sguardo rivolto “alle cose che si vedono” e che “sono per un tempo” (2 Corinzi, 4:18), finiremo comunque a dovere fare i conti con i nostri o gli altrui limiti, cioè con la fine della nostra disponibilità a dare. Inevitabilmente, prima o poi, il nostro dare si orienterà verso il prendere, come accade tipicamente quando compriamo qualcosa, ma anche quando ci aspettiamo un ritorno affettivo dal bene che diamo o che vogliamo. Allora, se il nostro dare si orienterà verso il prendere, non solo invidieremo quelli che sono riusciti ad avere di più di noi, ma diventeremo anche gelosi di quello che siamo riusciti ad acquistare.

Per questo l'amore naturale è sempre, alla fine, egocentrico e interessato. Così anche, sfacciatamente, la religione idolatra. Do ut des (“do perché tu dia”), dicevano candidamente gli antichi Romani.

Non si tratta di una mentalità particolarmente esotica o selvaggia. Tutta la nostra vita naturale, da quella degli affari a quella degli affetti, è più o meno coscientemente organizzata attorno al nostro amore per certe cose o certe persone nelle quali vediamo appagati i nostri desideri o incarnate le nostre aspirazioni.. È l'amore di cui parlano la mitologia, il folclore, le canzonette e anche la maggior parte dei testi della letteratura classica, moderna e contemporanea. Per non parlare del cinema e degli altri mass media. Ma spesso anche la nostra assonnata religiosità cristiana è imperniata su sentimenti carnali e possessivi, di cui non abbiamo saputo o voluto sbarazzarci.

Questo modo di amare, anche se può dare intense emozioni (il suo effetto assomiglia parecchio a quello di una droga), non porta vera gioia, né vera libertà. Il n'y a pas d'amour heureux (“non c'è amore felice”) scriveva il poeta Louis Aragon, perché l'amore come lo conosceva lui si secca e si sbriciola molto rapidamente. La vera gioia è dare (“il dare è cosa più felice del prendere” Atti, 20:35), ma per l'uomo non è possibile dare senza pensare anche a prendere e questo, prima o poi, di fronte a un rifiuto, a una stonatura o a un'incomprensione, corrompe prima o poi la purezza e la spontaneità dell'amore, trasformandolo in interessato desiderio di possesso o esercizio di potere.

L'amore di Dio, invece, è sempre altruista, puro, disinteressato: “L'amore è paziente, è benevolo; l'amore non invidia (ou zeloi); l'amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non sospetta il male, non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.” (1 Corinzi, 13:4-7).

Agapè ou zeloi “l'amore non si ingelosisce”, scrive letteralmente Paolo. Molte traduzioni preferiscono rendere con non invidia: forse per evitare il problema di far conciliare questa affermazione con quella fatta dal Signore a Mosè: “Tu non adorerai altro dio, perché il Signore, che si chiama il Geloso, è un Dio geloso.” (Esodo, 34:14). (D'altra parte, citando la versione dei Settanta, Giacomo nella sua lettera (4:5) rammenta che la Scrittura dice di Dio che Egli “ci brama fino all'invidia”: pros phthonon, che la nostra traduzione rende infatti con fino alla gelosia.)

Il fatto è che nella parola di Dio la questione non è mai una questione di soli termini, ma sempre di sostanza. Non conta tanto il sentimento in sé o come lo chiamiamo, quanto piuttosto verso cosa o meglio verso chi orientiamo il nostro cuore. Dice infatti l'apostolo Paolo: “Noi (…) abbiamo ricevuto (…) lo Spirito che viene da Dio, per conoscere le cose che Dio ci ha donate; e noi ne parliamo non con parole insegnate dalla sapienza umana, ma insegnate dallo Spirito, adattando parole spirituali a cose spirituali.” (1 Corinzi, 2:12-13).

Scopo della parola di Dio è farci conoscere il suo amore spirituale: il desiderio dello Spirito, che, come dice Paolo, è opposto a quello della carne, “perché la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; sono cose opposte tra di loro; in modo che non potete fare quello che vorreste.” (Galati, 5:17).

E questo è appunto il senso della gelosia di Dio. Gesù ha detto ai suoi discepoli “Nessuno può servire due padroni; perché o odierà l'uno e amerà l'altro, o avrà riguardo per l'uno e disprezzo per l'altro. Voi non potete servire Dio e Mammona.” (Matteo, 6:24). Mammonà è la traslitterazione di una parola aramaica che significa “mucchio, ricchezza, gruzzolo”.

Se cerchiamo le ricchezze non possiamo trovare l'amore di Dio. D'altra parte, se non cerchiamo l'amore di Dio, finiremo comunque per cercare le ricchezze.

La fornicazione e l'idolatria (strettamente ed esplicitamente connesse lungo tutti i libri della Bibbia) diventano cioè inevitabili. È verso questo amore idolatra e interessato che si accende la gelosia dell'amore di Dio. La gelosia di chi teme che l'amato sia preso dall'amore della carne e non possa più seguire quello puro dello spirito.

La gelosia di Dio è la gelosia dello Spirito di purezza verso l'amore interessato per gli idoli e le loro false promesse di abbondanza e di felicità.

La gelosia di Dio non è però da confondersi con quella della carne, né deve darle autorità. Come scriveva Paolo ai Corinzi (13:4-5), l'amore spirituale non è né geloso, né sospettoso. La gelosia di Dio è la gelosia di chi ci ama di un amore vero. Come quello del buon pastore che vuole proteggere la vita delle sue pecore e che a questo scopo mette a repentaglio la sua stessa vita.

Questa gelosia può anche essere quella dello sposo. Non per niente in ebraico le parole per pastore e per coniuge si scrivono con le stesse lettere. Ma l'amore è fiducia e non sospetto. La gelosia può effettivamente corrodere la struttura stessa (“le ossa”) di un matrimonio. Per questo il Signore aveva previsto una cura per eliminare i sospetti del marito. Una procedura che permetteva al sacerdote di rivelare l'infedeltà di una donna, se colpevole, o di fugare interamente i dubbi del marito, se la moglie era innocente: una “legge relativa alla gelosia per il caso in cui la moglie di uno si svii ricevendo un altro invece di suo marito e si contamini, per il caso in cui lo spirito di gelosia s'impossessi del marito e questi diventi geloso della moglie” (Numeri, 5:29-30).

L'amore di cui ci parla la parola di Dio, al contrario dell'amore naturale, non è né sospettoso né possessivo, perché dona sempre, perfino la vita; si misura, anzi, in base a quello che porta a donare. Difatti, Gesù ha detto che “nessuno ha amore più grande di quello di dar la sua vita per i suoi amici.” (Giovanni, 15:13).

Questo è l'amore di Dio per il suo popolo e questo, secondo la parola di Dio, deve anche essere l'amore del marito verso la moglie. Dice infatti sempre l'apostolo Paolo: “Mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la chiesa e ha dato sé stesso per lei” (Efesini, 5:22).

Dio ha tanto amato il mondo, la sua creazione, da dare la sua Parola, il suo unico Figlio, perché potessimo essere salvati (Giovanni, 3:36). Ma l'uomo da solo non è in grado di ricambiare questo amore. Perché pensiamo che il nostro bene ci venga dalle cose che ci piacciono e non riusciamo a intendere che “ogni cosa buona e ogni dono perfetto vengono dall'alto e discendono dal Padre degli astri luminosi” (Giacomo, 1:17). Nel libro del profeta Osea è scritto di Israele, raffigurato come una donna infedele “si è prostituita; (…) ha fatto cose vergognose, poiché ha detto: "Seguirò i miei amanti, che mi danno il mio pane, la mia acqua, la mia lana, il mio lino, il mio olio e le mie bevande" (…) Lei non si è resa conto che ero io che le davo il grano, il vino, l'olio; io le prodigavo l'argento e l'oro, che essi hanno usato per Baal!” (Osea, 2:5 e 8).

Attraverso tutta la Legge, i profeti e gli scritti il Signore continua a rimproverare il popolo di Israele per la sua infedeltà. Perché il primo comandamento della Legge (“Tu amerai dunque il Signore, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua e con tutte le tue forze.” Deuteronomio, 6:5) Israele non lo poteva compiere con le sue sole forze. Ma la stessa situazione continua anche oggi che Iddio ha dato il suo Spirito perché la legge fosse compiuta. Perché non si può servire Dio e Mammona. E non si può ricevere lo Spirito di Dio se si chiede per la nostra soddisfazione. Per questo è necessario rifiutare attivamente la nostra avidità naturale.

Scrive Giacomo: “O gente adultera, non sapete che l'amicizia del mondo è inimicizia verso Dio? Chi dunque vuol essere amico del mondo si rende nemico di Dio. Oppure pensate che la Scrittura dichiari invano che: "Lo Spirito che egli ha fatto abitare in noi ci brama fino alla gelosia"? (Giacomo, 4:4-5). E Giovanni: “Non amate il mondo né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui.” (1 Giovanni, 2:15). Paolo conferma: “Voi non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; voi non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni. O vogliamo forse provocare il Signore a gelosia? Siamo noi più forti di lui?” (1 Corinzi, 10:21-22).

Come tutti i sentimenti di Dio, anche la gelosia spirituale del Signore si può trasferire anche agli uomini.

Come nel caso di Fineas, per esempio. Quando “Israele era stanziato a Sittim e il popolo cominciò ad avere rapporti con le figlie di Moab”. Queste donne “invitarono il popolo ai sacrifici offerti ai loro dèi; e il popolo mangiò e si prostrò davanti ai loro dèi. Israele si unì a Baal-Peor e l'ira del Signore si accese contro Israele.” Scoppiò una pestilenza e il Signore ordinò a Mosè di far morire tutti coloro che avevano fornicato con le figlie degli stranieri. Per tutta risposta “uno dei figli d'Israele venne e condusse ai suoi fratelli una donna madianita, sotto gli occhi di Mosè e di tutta la comunità dei figli d'Israele, mentre essi stavano piangendo all'ingresso della tenda di convegno. E Fineas, figlio di Eleazar, figlio del sacerdote Aaronne, lo vide, si alzò in mezzo alla comunità e afferrò una lancia; poi andò dietro a quell'Israelita nella sua tenda e li trafisse tutti e due, l'uomo d'Israele e la donna, nel basso ventre. E il flagello cessò tra i figli d'Israele. Di quel flagello morirono ventiquattromila persone. Il SIGNORE parlò a Mosè e disse: "Fineas, figlio di Eleazar, figlio del sacerdote Aaronne, ha allontanato la mia ira dai figli d'Israele, perché egli è stato animato del mio zelo in mezzo a loro; e io, nella mia indignazione, non ho sterminato i figli d'Israele. Perciò digli che io stabilisco con lui un patto di pace, che sarà per lui e per la sua discendenza dopo di lui: l'alleanza di un sacerdozio perenne, perché egli ha avuto zelo per il suo Dio, e ha fatto l'espiazione per i figli d'Israele".” (Numeri, 25:1-13).

Di una simile gelosia si accese Gesù nel Tempio di Gerusalemme vedendo contaminare la purezza della casa di Dio con la fornicazione della legge del mercato. “Trovò nel Tempio quelli che vendevano buoi, pecore, colombi, e i cambiavalute seduti. Fatta una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori dal Tempio, pecore e buoi; sparpagliò il denaro dei cambiavalute, rovesciò le tavole, e a quelli che vendevano i colombi disse: "Portate via di qui queste cose; smettete di fare della casa del Padre mio una casa di mercato". E i suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: "Lo zelo per la tua casa mi consuma".” (Giovanni, 2:14-17). Citando più per esteso il salmo di Davide di cui si ricordarono i discepoli di Gesù: “Per amor tuo io sopporto gli insulti, la vergogna mi copre la faccia. Sono un estraneo per i miei fratelli, un forestiero per i figli di mia madre. Poiché mi divora lo zelo per la tua casa, gli insulti di chi ti oltraggia son caduti su di me.” (Salmi, 69:7-9).

Anche Paolo parlando ai Corinzi si dichiara animato da vera e propria gelosia “Vorrei che sopportaste da parte mia un po' di follia! Ma, sì, già mi state sopportando! Infatti sono geloso di voi della gelosia di Dio, perché vi ho fidanzati a un unico sposo, per presentarvi come una casta vergine a Cristo. Ma temo che, come il serpente sedusse Eva con la sua astuzia, così le vostre menti vengano corrotte e sviate dalla semplicità e dalla purezza nei riguardi di Cristo.” (2 Corinzi, 11:1-3).

La gelosia per le cose di Dio può venire però anche fraintesa, se gli uomini che ne sono animati non sono sufficientemente spirituali. Il che, detto per inciso, può accadere a tutti: la spiritualità non è scritta nel corredo genetico, ma è un frutto che matura attraverso un costante rapporto di attivo amore con Dio.

Così anche Giosuè è stato ripreso per la sua gelosia quando si è adirato perché due dei settanta anziani che coadiuvavano Mosè profetizzavano nel campo e non presso la tenda di convegno. “Giosuè, figlio di Nun, servo di Mosè fin dalla sua giovinezza, prese a dire: "Mosè, signor mio, non glielo permettere!". Ma Mosè gli rispose: "Sei geloso per me? Oh, fossero pure tutti profeti nel popolo del Signore, e volesse il Signore mettere su di loro il mio spirito!"” (Numeri, 11:28-29). Una cosa simile successe anche ai discepoli di Gesù. “Giovanni disse: "Maestro, noi abbiamo visto un tale che scacciava i demòni nel tuo nome, e glielo abbiamo vietato perché non ti segue con noi". Ma Gesù gli disse: "Non glielo vietate, perché chi non è contro di voi è per voi" (Luca, 9:49-50).

Facilmente, per opera della carne, anche tra i credenti si formano delle divisioni. Come se quello che Dio dice all'uno dovesse valere anche per l'altro e le differenze diventassero automaticamente segni di ostilità. Come se le cose che facciamo noi potessero essere in qualche misura essenziali all'opera di Dio e diventare legge per tutti.

Anche Paolo sgridava i Corinzi per questo, domandando loro: “dato che ci sono tra di voi gelosie e contese, non siete forse carnali e non vi comportate come qualsiasi uomo? Quando uno dice: "Io sono di Paolo"; e un altro: "Io sono d'Apollo"; non siete forse uomini carnali? Che cos'è dunque Apollo? E che cos'è Paolo? Sono servitori, per mezzo dei quali voi avete creduto; e lo sono nel modo che il Signore ha dato a ciascuno di loro. Io ho piantato, Apollo ha annaffiato, ma Dio ha fatto crescere; quindi colui che pianta e colui che annaffia non sono nulla: Dio fa crescere!” (1 Corinzi, 3:4-7).

Caino si sentiva defraudato del favore di Dio, perché credeva di averne acquistato il diritto con quello che aveva fatto per Lui.

Sgridando Adamo ed Eva per la loro disubbidienza, Dio aveva detto, rispettivamente, a lei che avrebbe partorito con dolore e a lui che avrebbe lavorato la terra con fatica (Genesi, 3:16-19). Eva aveva chiamato Qayin il frutto del suo primo parto come se con quel dolore avesse acquistato qualcosa presso l'Eterno (Genesi, 4:1) e Caino era caduto nello stesso inganno, perché ciò che donava a Dio con il suo sacrificio erano proprio i frutti della terra che era riuscito a produrre con il sudore della sua fronte. Caino, abbiamo già visto, si adirò con suo fratello Abele, che era stato a guardare le greggi moltiplicarsi da sole e che otteneva il favore di Dio dandogli parte di quello che aveva ricevuto per grazia.

Ma l'amore che Dio vuole piantare in noi è proprio quello che nasce dalla gratitudine per ciò che non abbiamo meritato, né avremmo mai potuto meritare. La gratitudine per la sovrabbondante grazia di Dio.

Non era perché l'aveva avuto Abele che Caino non poteva avere il favore del Signore. Difatti “il Signore disse a Caino: "Perché sei irritato? e perché hai il volto abbattuto? Se agisci bene, non rialzerai il volto?"” (Genesi, 4:6-7). Dio non ce l'aveva con Caino, era lui che sbagliava tutto.

“La stoltezza dell'uomo ne perverte la via, ma il suo cuore si irrita contro il Signore.” (Proverbi, 19:3).

Anche la stoltezza non è un male incurabile, se la ammettiamo e non ci crediamo sapienti da noi stessi. Perché abbiamo sempre la possibilità, riconoscendo il nostro bisogno, di andare a chiedere a Dio la sua natura e il suo amore; cioè, la sua sapienza. Difatti è scritto: “Chi manca di sapienza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente, senza rinfacciare” (Giacomo, 1:4). Dio è generoso ed eterno. La fonte della sapienza di Dio è “un fiume che scorre perenne” (Proverbi, 18:4).

Il costante invito del Signore è “Voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte!” (Isaia, 55:1).

Anche Gesù a Gerusalemme durante la festa delle Capanne “nell'ultimo giorno, il giorno più solenne della festa, (…) stando in piedi esclamò: "Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, fiumi d'acqua viva sgorgheranno dal suo seno". (Giovanni, 7:37-38).

“Il principio della sapienza è: Acquista la sapienza; sì, a costo di quanto possiedi, acquista l'intelligenza” (Proverbi, 4:7). Non si tratta di acquistarla con le nostre opere buone, con la nostra fatica, né tantomeno con il nostro denaro (a Simone, il mago che credeva di poter comprare la possibilità di dare il dono dello Spirito Santo, Pietro ha risposto "Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché hai creduto di poter acquistare con denaro il dono di Dio…" ), ma a costo di quanto possediamo, denaro compreso.

Si tratta di cercare con tutto il cuore quella fonte perenne che ci permette di cambiare il nostro modo di pensare ed entrare in una vita veramente nuova. Cercare con vero amore, a prezzo anche della vita.

La stessa sapienza dice: “Io amo quelli che mi amano, e quelli che mi cercano mi trovano.” (Proverbi, 8:17).

Il denaro è un simbolo del desiderio degli uomini e come quest'ultimo prende valore dalla finitezza di ciò che rappresenta. La vera differenza passa tra un amore eterno e un amore che fa i conti con un tempo finito. “Ho una vita sola”, ho sentito spesso dire da chi voleva giustificare il suo adulterio.

Certamente l'amore e la sapienza di Dio si possono trovare soltanto per fede. Non si abbracciano come si può abbracciare un corpo amato. Eppure, dello Sposo celeste, è scritto nel Cantico di Salomone “Mi baci egli dei baci della sua bocca, poiché le tue carezze sono migliori del vino. I tuoi profumi hanno un odore soave; il tuo nome è un profumo che si spande; perciò ti amano le fanciulle!” (1:2-3).

Ed è il Signore che ci ha fatti come siamo e che conosce molto bene tutti i nostri bisogni, dello spirito, dell'anima e anche del corpo. Ha visto che non era bene per l'uomo stare da solo e gli ha dato una moglie perché vivessero felici assieme, aiutandosi e sottomettendosi reciprocamente nell'amore (che “copre una grande quantità di peccati” 1 Pietro, 4:8 e Proverbi, 10:12). Vivere per fede non significa vivere d'aria. Significa fidarsi di Dio e non di quello che si vede, che è sempre limitato e ci porta a cercare quello che non si ha.

Cercando e provando la bontà di Dio, conoscendo per esperienza quale sia la sua buona, perfetta e accettevole volontà (Romani, 12:1-2), si può concretamente vincere sulle passioni che divorano la nostra anima. Amando Dio di un amore sincero, impariamo ad amare anche il nostro prossimo, a cominciare dal coniuge (in ebraico anche prossimo e coniuge sono espresse dalla stessa parola: rea'). Impariamo cioè ad amare gli altri per quello che sono e non per quello che ci possono dare (proprio come anche noi vorremmo essere amati). Se non amiamo attivamente tutte le cose che possiamo dire resteranno soltanto chiacchiere.

“Chi fra voi è sapiente e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e sapienza. Ma se avete nel vostro cuore amara gelosia e spirito di contesa, non vi vantate e non mentite contro la verità. Questa non è la sapienza che scende dall'alto; ma è terrena, animale e diabolica. Infatti dove c'è invidia e contesa, c'è disordine e ogni cattiva azione. La saggezza che viene dall'alto, anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia. Il frutto della giustizia si semina nella pace per coloro che si adoperano per la pace.” (Giacomo, 3:13-18)

Mentre la sapienza di questo mondo ci insegna ad essere noi stessi, anzi a conservare a tutti i costi la nostra identità, la sapienza di Dio, con l'esempio di Cristo Gesù, ci guida a donare tutto, anche la vita.

Questo mondo ci insegna un amore che è sempre a un passo dall'invidia e dalla gelosia, “ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini.” (1 Corinzi, 1:23-25).

Il dono di sé nell'amore che Gesù ci ha fatto sulla croce è un esempio vivente per chi vuole veramente seguirlo. “Chi vorrà salvare la sua vita (nel testo greco è scritto psychèn, “anima”), la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà.” (Matteo, 16:25)

A una donna samaritana incontrata al pozzo di Giacobbe (lei aveva avuto cinque mariti e conviveva con uno che non era suo marito; parlavano di acqua, ma Gesù alludeva delicatamente anche al all'umana sete d'amore) Gesù ha detto: "Chiunque beve di quest'acqua avrà sete di nuovo; ma chi beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui una fonte d'acqua che scaturisce in vita eterna". (Giovanni, 4:13)

“Provate e vedrete quanto il Signore è buono!” (Salmi, 34:8)