Siamo noi i guardiani dei nostri fratelli?

Siamo noi i guardiani dei nostri fratelli?

di Ettore Panizon

 

(Studio biblico portato in chiesa il 26 dicembre 2013)

Dopo il breve resoconto della nascita di Gesù a Betlemme, Luca continua raccontando come ne fu dato l'annuncio: "In quella stessa regione c'erano dei pastori che stavano nei campi e di notte facevano la guardia al loro gregge. E un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore risplendette intorno a loro, e furono presi da gran timore. L'angelo disse loro: Non temete, perché io vi porto la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà: Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore. E questo vi servirà di segno: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia. E a un tratto vi fu con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste, che lodava Dio e diceva: Gloria a Dio nei luoghi altissimi, e pace in terra agli uomini ch'egli gradisce!" (Luca 2:8-14).
mano nella manoOltre a dirci che Gesù non è nato d'inverno - perché questi pastori stavano di notte all'addiaccio, mentre d'inverno sui monti attorno a Gerusalemme fa abbastanza freddo e le pecore vengono normalmente tenute al ripario negli ovili - questo passo ci mostra un altro fatto singolare e spiritualmente anche più significativo, cioè che Dio ha mandato degli angeli ad annunciare la nascita del suo Figlio unigenito a dei pastori, anziché ai sacerdoti, agli scribi e ai dottori della Legge, tra i quali c'erano anche quelli che attendevano con sincero cuore la venuta del Messia promesso dalle Sacre Scritture. Dio però non ha mandato i suoi angeli a loro, ma ha voluto parlare innanzitutto a degli umili pastori che erano nelle vicinanze di quella stalla.
Luca specifica che quei pastori facevano la guardia di notte al loro gregge. In questo modo la Bibbia ci fa sapere, con il suo delicato linguaggio, quali siano gli uomini che Dio gradisce, cioè quali siano gli uomini secondo la sua volontà. Dio parla attraverso la realtà dei fatti e questi pastori erano una figura reale degli uomini che Dio gradisce, perché facevano il loro dovere, stando di notte a fare la guardia alle loro greggi. Di fatto, questi umili pastori sono stati i primi uomini a cui Dio ha mandato l'annuncio della salvezza attraverso Gesù. La notizia più importante di tutta la storia dell'uomo.

Fin dal libro della Genesi, molti degli uomini che Dio gradiva erano pastori. Tra i due primi fratelli, era un pastore Abele, quello i cui sacrifici erano graditi a Dio, mentre di suo fratello Caino è scritto che era un agricoltore (Genesi 4:2). Dopo avere ucciso Abele, quando Dio gli chiese dove fosse suo fratello, Caino rispose "non lo so, sono forse io il guardiano di mio fratello?" (Genesi 4:9). Questo è quello che Dio non gradisce, quello che non ha inteso che diventasse l'uomo, quando lo fece a sua immagine e somiglianza (Genesi 1:26). Mentre Esaù preferiva cacciare, ed era per questo preferito da suo padre Isacco. Giacobbe - preferito dal Signore (Malachia 1:2-3) - era un esperto pastore (Genesi 25:27-28 e i capitoli 29 e 30). Il popolo di Israele è stato fin dall'inizio un popolo di pastori (come hanno detto loro stessi al Faraone; Genesi 47:3).
Effettivamente, pasturare il gregge è una delle attività che fanno assomigliare l'uomo a Dio. In vari luoghi della Bibbia Dio stesso è infatti presentato come un pastore. Conosciamo tutti il salmo 23, in cui Davide innanzitutto dichiara: "Il Signore è il mio pastore". (Salmi 23:1). Altrove, sempre nei Salmi, il Signore è invocato come Pastore d'Israele: "tu che guidi Giuseppe come un gregge" (Salmi, 80:1).
Anche i profeti presentano spesso l'opera di Dio come quella di un pastore. Isaia scrive: "Ecco il Signore, Dio, viene con potenza, con il suo braccio egli domina. (...) Come un pastore, egli pascerà il suo gregge: raccoglierà gli agnelli in braccio, li porterà sul petto, condurrà le pecore che allattano"(Isaia 40:10-11). Geremia usa la stessa similitudine: "Colui che ha disperso Israele lo raccoglie, lo custodisce come fa il pastore con il suo gregge" (Geremia 31:10).

La parola ebraica che significa "pastore" ha le stesse consonanti (resh+ayn) della parola che significa "prossimo" e anche "amico". Il Signore è il nostro prossimo, Colui che si prende cura di noi, Colui che non dice "sono forse io il guardiano di mio fratello?". Lui è il guardiano che veglia su di noi, Colui che conosce l'intimo nostro e veglia su tutto quello che può toccarci nell'intimo.

Davide, prima di diventare ufficialmente re, era stato un pastore secondo il cuore di Dio. Era attento a quello che succedeva al suo gregge, come lui stesso racconta al re Saul quando gli comunica il suo desiderio di affrontare Golia in combattimento: "Il tuo servo pascolava il gregge di suo padre e talvolta veniva un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. Allora gli correvo dietro, lo colpivo, gli strappavo dalle fauci la preda; e se quello mi si rivoltava contro, lo afferravo per le mascelle, lo ferivo e l'ammazzavo." (1Samuele 17:34-35).

Dio stesso ha questo cuore. Gesù dice: "Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore. Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga, e il lupo le rapisce e disperde. Il mercenario [si dà alla fuga perché è mercenario e] non si cura delle pecore. Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me, come il Padre mi conosce e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore." (Giovanni 10:11-15).

Questo è il nostro Signore. Ho riflettuto su questa parola riferendola a me e ho visto che veramente non posso dire di non essere un mercenario. Per quanto sono io, non posso dire di essere capace di dare la mia vita per gli altri, neanche per i miei fratelli. Perché è sempre per una mercede, cioè per un ritorno che agisco e se vedo uno svantaggio preferisco non agire. E anche se sono disposto a soffrire qualche perdita per il bene degli altri, non credo di essere pronto a dare la mia vita. Per quanto sta in me, vedo che a questo non c'è rimedio.

Alla fine del capitolo 7 della Lettera ai Romani Paolo esclama: "Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?". Ma poi aggiunge: "Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore. Così dunque, io con la mente servo la legge di Dio, ma con la carne la legge del peccato" (Rom 7:24-25). La nostra carne segue la legge del peccato, ma grazie a Dio c'è anche una legge dello Spirito, di cui Paolo parla poi diffusamente nel capitolo successivo della stessa lettera. "Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù, perché la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte" (Romani 8:1-2).

Nel libro del profeta Geremia, il Signore ha promesso: "vi darò dei pastori secondo il mio cuore, che vi pasceranno con conoscenza e intelligenza." (Geremia 3:15). E nella lettera agli Efesini Paolo scrive che il Signore stesso ha dato dei pastori, assieme agli apostoli, ai profeti, agli evangelisti e ai dottori" (Efesini 4:8-11). Ha dato degli uomini come dei doni, perché il suo popolo fosse curato. Ma questo non è scritto perché ci giustifichiamo pensando che ci sono i pastori e che la cura dei nostri fratelli spetta a loro. Perché è tutto il popolo di Dio che ha ricevuto il Signore nel cuore e quindi il cuore del Signore è in ciascuno di noi. Tutti noi abbiamo la stessa chiamata a non dire come Caino "sono forse io il custode di mio fratello?", ma a curarci del nostro prossimo, sentendo i suoi pesi come i nostri pesi. A metterci a disposizione per sollevare, sostenere, incoraggiare i nostri fratelli, avendo un cuore saggio, cioè il cuore di Dio, che non è venuto in carne come figlio dell'uomo per essere servito, "ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti" (Matteo 20:28).

Se consideriamo noi stessi, non possiamo che vedere insufficienza, come scrivono sia Paolo che Giacomo: questa è la legge del peccato (Romani 3:20 e 7:23). Una legge, una parola (torah il termine ebraico che traduciamo con legge significa innanzitutto "istruzione, insegnamento") che non riusciamo a mettere in pratica. Una legge che ci fa solo sapere che siamo peccatori. Uno ci si guarda come in uno specchio, ma poi si dimentica di quello che ha visto. È la legge della nostra incapacità di fare il bene e della nostra schiavitù al peccato. Ma c'è anche una legge della libertà. Giacomo infatti scrive "se uno è ascoltatore della parola e non esecutore, è simile a un uomo che guarda la sua faccia naturale in uno specchio; e quando si è guardato se ne va, e subito dimentica com'era. Ma chi guarda attentamente nella legge perfetta, cioè nella legge della libertà, e in essa persevera, non sarà un ascoltatore smemorato, ma uno che la mette in pratica; egli sarà felice nel suo operare." (Giacomo 1:23-25).

Grazie a Dio perché non siamo noi che dobbiamo compiere l'opera. L'opera è stata compiuta da Gesù sulla croce. È lì che Gesù ha detto: "È compiuto!" (Giovanni, 19:30). E guardando a questa legge perfetta (cioè compiuta) che possiamo diventare quello che non siamo, cioè camminare come Gesù e avere un cuore come il suo, avendo attenzione per gli altri non per il vantaggio che possiamo averne, ma perché sappiamo, anzi sentiamo che Dio ha questa attenzione, perché Dio è il pastore del suo gregge, il pastore che dà la sua vita per le pecore.

Guardando a quello che ha fatto Gesù riceviamo la gratitudine, il perdono e la misericordia che sono necessarie per aiutare gli altri, per stare insieme a loro, per perdonare i loro torti, per pazientare con i loro difetti, per essere vicini a quelli che soffrono e avvicinarli a Dio. Se invece guardiamo a noi stessi dobbiamo concludere che possiamo solo fare finta di essere buoni.

La Bibbia è piena di terribili rimproveri per i pastori egoisti e disattenti al loro gregge. Soprattutto i libri dei profeti. Geremia scrive da parte del Signore: "Le mie tende sono guaste, tutto il mio cordame è rotto; i miei figli sono andati lontano da me e non sono più; non c'è più nessuno che stenda la mia tenda, che innalzi i miei teli. Perché i pastori sono stati stupidi e non hanno cercato il Signore; perciò non hanno prosperato e tutto il loro gregge è stato disperso" (Geremia 10:20-21). E anche "Molti pastori guastano la mia vigna, calpestano la parte che mi è toccata, riducono la mia deliziosa proprietà in un deserto desolato" (Geremia 12:10). "Guai ai pastori che distruggono e disperdono il gregge del mio pascolo! dice il Signore. Perciò così parla il Signore, Dio d'Israele, riguardo ai pastori che pascolano il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate, e non ne avete avuto cura; ecco, io vi punirò, per la malvagità delle vostre azioni, dice il Signore. Urlate, pastori, gridate; rotolatevi nella polvere, voi, guide del gregge! Poiché è giunto il tempo in cui dovete essere scannati; io vi frantumerò e cadrete come un vaso prezioso"(Geremia 23:1-2). "Urlate, pastori, gridate; rotolatevi nella polvere, voi, guide del gregge! Poiché è giunto il tempo in cui dovete essere scannati; io vi frantumerò e cadrete come un vaso prezioso. Ai pastori mancherà ogni rifugio, le guide del gregge non avranno via di scampo. Si ode il grido dei pastori, l'urlo delle guide del gregge; poiché il Signore devasta il loro pascolo" (Geremia 25:34-36). "Il mio popolo era un gregge di pecore smarrite; i loro pastori le avevano sviate sui monti dell'infedeltà; esse andavano di monte in colle, avevano dimenticato il luogo del loro riposo." (Geremia 50:6).
Il libro di Ezechiele  non è meno duro. "Figlio d'uomo, profetizza contro i pastori d'Israele; profetizza, e di' a quei pastori: Così parla Dio, il Signore: Guai ai pastori d'Israele che non hanno fatto altro che pascere sé stessi! Non è forse il gregge quello che i pastori debbono pascere?
Voi mangiate il latte, vi vestite della lana, ammazzate ciò che è ingrassato, ma non pascete il gregge. Voi non avete rafforzato le pecore deboli, non avete guarito la malata, non avete fasciato quella che era ferita, non avete ricondotto la smarrita, non avete cercato la perduta, ma avete dominato su di loro con violenza e con asprezza. Esse, per mancanza di pastore, si sono disperse, sono diventate pasto di tutte le bestie dei campi, e si sono disperse. Le mie pecore si smarriscono per tutti i monti e per ogni alto colle; le mie pecore si disperdono su tutta la distesa del paese, e non c'è nessuno che se ne prenda cura, nessuno che le cerchi! Perciò, o pastori, ascoltate la parola del Signore! Com'è vero che io vivo, dice Dio, il Signore, poiché le mie pecore sono abbandonate alla rapina; poiché le mie pecore, che sono senza pastore, servono di pasto a tutte le bestie dei campi, e i miei pastori non cercano le mie pecore; poiché i pastori pascono sé stessi e non pascono le mie pecore, perciò, ascoltate, o pastori, la parola del Signore! Così parla Dio, il Signore: Eccomi contro i pastori; io domanderò le mie pecore alle loro mani; li farò cessare dal pascere le pecore; i pastori non pasceranno più sé stessi; io strapperò le mie pecore dalla loro bocca ed esse non serviranno più loro di pasto" (Ezechiele 34:2-10).

Anche Isaia ha parole durissime per i pastori negligenti  "I guardiani d'Israele sono tutti ciechi, senza intelligenza; sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare; sognano, stanno sdraiati, amano sonnecchiare. Sono cani ingordi, che non sanno cosa sia l'essere sazi; sono pastori che non capiscono nulla; sono tutti vòlti alla propria via, ognuno mira al proprio interesse, dal primo all'ultimo. Venite  dicono, "io andrò a cercare del vino e c'inebrieremo di bevande forti! Il giorno di domani sarà come questo, anzi sarà più grandioso ancora!" (Isaia 56:10-11).

L'uomo da solo non può fare l'opera di Dio. Da solo, l'uomo non può che essere mancante, perché tende a dormire, a chiudersi in se stesso. Vegliare significa essere coscienti, e cioè essere assieme agli altri uomini, interessandosi alle loro vite. Quando ci ritiriamo in noi stessi per cercare il nostro interesse, ci allontaniamo dalla giustizia di Dio ("chi si separa dagli altri, cerca la sua propria soddisfazione, e si irrita contro tutto ciò che è giusto" Proverbi 18:1). E così ci addormentiamo.

Il Signore invece è un guardiano che "non dorme e non sonnecchia" (Salmi 121:4). E mentre lui stesso vegliava, Gesù ha detto anche ai suoi di vegliare (Matteo 26:38-41). Paolo ci dice di perseverare "nella preghiera, vegliando in essa con rendimento di grazie" (Colossesi 4:2).

Vegliare significa anche non dimenticare. "Benedici, anima mia, il Signore; e tutto quello ch'è in me, benedica il suo santo nome. Benedici, anima mia, il Signore e non dimenticare nessuno dei suoi benefici" (Salmi 103:1-2). Nella gratitudine per quello che Gesù ha compiuto possiamo avere la forza per dare. La forza per avere a cuore quello che sta succedendo al nostro prossimo, alle persone che sono intorno a noi, che Dio conosce e ama quanto conosce e ama noi. Un cuore che non è il nostro, perché naturalmente abbiamo a cuore quello che ci tocca e quando siamo a posto noi è come se tutto il mondo fosse a posto. Questo non è il cuore di Dio. Anche se Dio ha a cuore che noi abbiamo pace e non siamo in travaglio per quello in cui non possiamo intervenire. Ma non badare ai problemi degli altri solo perché non sono i nostri non è il cuore del pastore, e non è neanche il cuore della pecora.
Nel libro di Zaccaria, questi pastori che sono chiamati in giudizio da Dio sono definiti capri: "La mia ira si è accesa contro i pastori e io punirò i capri; perché il Signore degli eserciti visita il suo gregge, la casa di Giuda, e ne fa come il suo cavallo d'onore nella battaglia" (Zaccaria 10:3).
Questo appellativo - capri - ci ricorda un discorso profetico di Gesù riportato nel vangelo di Matteo: "Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti gli angeli, prenderà posto sul suo trono glorioso. E tutte le genti saranno riunite davanti a lui ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri; e metterà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra" (Matteo 25:31-33). I capri come sappiamo sono ovini che non formano gregge, non hanno interesse gli uni per gli altri, stanno ognuno per conto proprio. Nel seguito di questo discorso Gesù spiega che le "pecore" sono quegli uomini che hanno visto e hanno soccorso il bisogno nei fratelli, nelle sorelle, nelle persone che erano accanto a loro. Facendo questo a loro, Gesù ha detto "voi l'avete fatto a me". Non facendo questo al nostro prossimo, non l'abbiamo fatto a Gesù (Matteo 25:40 e 45).

Nel capitolo 34 di Ezechiele, poco dopo il passo che abbiamo letto prima, è contenuto un simile discorso profetico. Lì i capri sono chiamati pecore grasse: "Perciò, così dice loro il Signore, Dio: Eccomi, io stesso giudicherò fra la pecora grassa e la pecora magra. Siccome voi avete spinto con il fianco e con la spalla e avete cozzato con le corna tutte le pecore deboli finché non le avete disperse e cacciate fuori, io salverò le mie pecore ed esse non saranno più abbandonate alla rapina; giudicherò tra pecora e pecora. Porrò sopra di esse un solo pastore che le pascolerà: il mio servo Davide; egli le pascolerà, egli sarà il loro pastore. Io, il Signore, sarò il loro Dio, e il mio servo Davide sarà principe in mezzo a loro. Io, il Signore, ho parlato. Stabilirò con esse un patto di pace; farò sparire le bestie selvatiche dal paese; le mie pecore abiteranno al sicuro nel deserto e dormiranno nelle foreste. Farò in modo che esse e i luoghi attorno al mio colle saranno una benedizione; farò scendere la pioggia a suo tempo, e saranno piogge di benedizione. L'albero dei campi darà il suo frutto, e la terra darà i suoi prodotti. Esse staranno al sicuro sul loro suolo e conosceranno che io sono il Signore, quando spezzerò le sbarre del loro giogo e le libererò dalla mano di quelli che le tenevano schiave. Non saranno più preda delle nazioni; le bestie dei campi non le divoreranno più, ma se ne staranno al sicuro, senza che nessuno più le spaventi. Farò crescere per loro una vegetazione rinomata; non saranno più consumate dalla fame nel paese e non subiranno più gli oltraggi delle nazioni. Conosceranno che io, il Signore, loro Dio, sono con loro, e che esse, la casa d'Israele, sono il mio popolo, dice Dio, il Signore. Voi, pecore mie, pecore del mio pascolo, siete uomini. Io sono il vostro Dio, dice il Signore" (Ezechiele 34:20-31).
Parlando di ovini, Dio sta ovviamente parlando di noi uomini. Dice: "sto parlando di quello che siete voi, se avete il mio cuore, oppure no". Se Gesù vive nel nostro cuore, oppure no. Questo raccomanda anche Paolo: "Esaminatevi per vedere se siete nella fede; mettetevi alla prova. Non riconoscete che Gesù Cristo è in voi? A meno che l'esito della prova sia negativo" (2Corinzi 13:5).
Se apriamo il nostro cuore al Signore, questo è quello che fa in noi, trasformandoci in quello che lui è. Questo è quello che abbiamo necessità che avvenga. Non possiamo pensare di essere giusti noi, ma sappiamo di avere ricevuto Colui che è giusto, e che quando gli lasciamo spazio diventa giustizia in noi.

Di Giovanni il battista Gesù ha detto che è stato il più grande di tutti i "nati di donna" (Matteo, 11:11), ma Giovanni stesso, riferendosi a Gesù, ha detto: "Bisogna che egli cresca, e che io diminuisca" (Giovanni 3:30). Gesù ha detto: "La legge e i profeti hanno durato fino a Giovanni; da quel tempo è annunziata la buona notizia del regno di Dio, e ciascuno vi entra a forza" (Luca 16:16).  Il vangelo, la buona notizia, è il regno di Dio nei nostri cuori, cioè che Gesù stesso governando in noi ci porta ad essere quello che non eravamo e che da noi stessi non siamo.
Anche con la più buona volontà, pur mettendocela tutta, al massimo riusciamo a entrare in quello che era Giovanni il battista: la legge e i profeti. Ma poi finisce che vediamo solo quello che non va in noi e, soprattutto negli altri, e alla fine ce ne dobbiamo dimenticare, altrimenti non viviamo più.
La via che il Signore ci indica è un'altra: la sua è la legge perfetta, cioè la via della croce.
È questa la via per mezzo della quale lui vive in noi, perché è la via che lui stesso ha preso.
Prima di parlare della necessità che tutti abbiamo di calcolare bene se possiamo o non possiamo intraprendere la sua via, Gesù ha detto chiaramente: "Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, e la moglie, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo. E chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo" (Luca 14:26-27).
Questo è quello che abbiamo la grazia di poter fare. Portare la croce non è un sacrificio, nel senso di uno scotto da pagare per avere qualcos'altro in cambio. La croce è la possibilità di diminuire noi, di non essere cioè più noi importanti. Di non essere più quelli che eravamo, ma di avere Dio stesso che vive in noi e ci porta ad agire in modo diverso da quello in cui agivamo da soli, cioè in modo diverso da quello che tende a fare la nostra carne, il nostro naturale egoismo. Perché vive in noi Colui che si prende cura del suo gregge e che vuole farlo attraverso ciascuno di noi, attraverso la cura che abbiamo gli uni per gli altri. Abbiamo così la possibilità di realizzare concretamente la sua cura e le sue attenzioni. Perché attraverso il sentimento di Cristo possiamo sentire il bisogno che c'è intorno a noi. E c'è tanto bisogno. Non riusciamo neanche ad avere un'idea del bisogno che c'è. Anche all'interno della chiesa, anche tra i nostri fratelli c'è tanto bisogno: di attenzione, di cura, di ascolto, di gentilezza, di pazienza. Ma se questo avviene tra di noi, quanto più c'è bisogno fuori! Quanto più c'è sofferenza e disperazione dove non si sa cercare rifugio presso il Consolatore!
Tutto questo bisogno, il Signore ci fa sentire che non dobbiamo pensare non ci riguardi. Dio desidera raggiungere quelli che sono attorno a noi, molti, molti di più di quanti non siano già stati raggiunti.

Perché noi possiamo prenderci veramente cura di queste persone è necessario che utilizziamo lo strumento che il Signore ci ha dato, cioè la croce. La croce per noi: cioè la nostra croce, da portare ciascuno di noi (non quella da fare portare agli altri, o da dire agli altri che bisogna portarla).
La nostra croce significa poter dire a noi stessi di no, anche riguardo alle cose che ci possono sembrare buone e utili, le cose in cui non c'è nulla di male, ma che comunque riempiono la nostra vita di affanni e la svuotano di amore e di servizio per gli altri.
Questa rinuncia riusciamo a farla solo assai imperfettamente, solo un po' alla volta, giorno per giorno ("Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua" aveva già detto in Luca 9:23). Ma la cosa importante è che la facciamo con gioia, cioè che comprendiamo che non stiamo lasciando la vita ma ciò che ci toglie la vita. Che non pensiamo di stare lasciando le cose buone della vita, ma che sappiamo che anzi stiamo lasciando quello che ci impedisce di essere come il Signore ci ha creato per essere. Che stiamo lasciando ciò che ci impedisce di entrare nel suo regno, un regno che, come è scritto, consiste "in giustizia, pace e gioia nella Spirito Santo" (Romani 14:17).

Quando non diamo importanza a noi stessi e non diamo importanza a quello che possiamo fare noi, allora è il Signore che riceve la gloria ed è la gloria del Signore quella in cui viviamo e di cui godiamo: la gioia sua, la pace sua, la giustizia sua. Allora davvero comprendiamo che "c'è più gioia nel dare che nel ricevere" (Atti 20:35). Se invece non lasciamo vivere Cristo perché non siamo crocifissi a noi stessi, lo possiamo anche dire, ma non lo comprendiamo, non lo realizziamo nel nostro cuore. E cercheremo sempre di prendere qualcosa in cambio, di avere qualche ritorno. Allora non potremo che essere dei mercenari, e non saremo capaci di dare la nostra vita per le altre pecore, perché per forza dovremo pensare alla nostra vita, a come salvare noi stessi.
Fin quando potremo trovare una via di compromesso, pensando a qualche bene futuro e soprattutto a evitare punizioni e sanzioni nella vita presente, cercheremo anche di non fare il male e ci sforzeremo pure di fare qualche bene. Ma questo appunto rimane il nostro modo di fare, la nostra religiosità, anche. Non la gloria di Dio. Non la gioia di Dio. Non la potenza di Dio, o la vita di Dio. Che sono ciò che Dio vuole per noi, basta che prendiamo la strada giusta.

Paolo nella lettera ai Filippesi dice che "molti camminano da nemici della croce di Cristo (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo)" (Filippesi 3:18). La croce è il nostro vero bene. Non è qualcosa da considerare un nemico, o un peso. Al contrario è attraverso la croce che possiamo avere la vera leggerezza. Il Signore ha detto "il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero" (Matteo 11:30). Prendere il giogo di Gesù significa essere legati al suo stesso basto. Camminare con il Signore. Lui ha detto di prendere la croce e di seguirlo. Non ha detto di prendere la croce e andarcene da un'altra parte. Prendere la nostra croce significa prendere la sua strada. Il suo giogo è buono e il suo carico è leggero. Camminare con lui non è qualcosa che dobbiamo fare come un sacrificio, pensando che adesso stiamo male ma ne avremo una ricompensa. È vero che oggi soffriamo ed è anche vero che ne saremo ricompensati. Ma non se consideriamo la croce come il nostro nemico. Non se facciamo quello che facciamo come il fratello del figliol prodigo, quel figlio che è rimasto a casa pensando di essere stato fregato dalla vita, mentre suo fratello se ne era andato a divertirsi con le prostitute (Luca 15:30).
Non è questo il cuore con cui possiamo essere graditi a Dio. Ma questa è la nostra natura. Per questo il Signore ci ha dato la croce. Perché possiamo fare e dire come ha fatto e detto Paolo: "non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato sé stesso per me" (Galati 2:20). Quando siamo crocifissi con Cristo, Cristo vive in noi.
La croce è l'unica via per cui Cristo possa vivere in noi e perché la sua vita possa essere abbondante, Gesù è venuto per darci vita abbondante (Giovanni 10:10). Non i nostri calcoli, ma la sua ricchezza, la sua acqua viva "che scaturisce a vita eterna" (Giovanni 4:14 e 7:38). Questo è quello che abbiamo necessità di ricevere per essere ciò che il Signore vuole che siamo per gli altri. Quelle che lui ha chiamato pecore sono state considerate pecore perché avevano dato cibo e assistenza a quelli che ne avevano bisogno. Gesù non ha bisogno di niente, perché regna nei cieli, ma vuole che come lui ha sentito e come lui ha vissuto anche noi sentiamo e anche noi viviamo. Perché solo questa è la vera vita. Al Signore sia la gloria!