Il servizio della Pasqua

di Ettore Panizon

 

Poiché così aveva detto il Signore, Dio, il Santo d'Israele: Nel tornare a me e nello stare sereni
sarà la vostra salvezza; nella calma e nella fiducia
sarà la vostra forza; ma voi non avete voluto!
(Isaia 30:15)

Come gli uccelli spiegano le ali sulla loro nidiata, così il Signore degli eserciti proteggerà Gerusalemme;
 la proteggerà, la libererà, la risparmierà,
la farà scampare.
(Isaia 31:5)

Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti
e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia raccoglie
i suoi pulcini sotto le ali; e voi non avete voluto!
(Matteo 23:37)

Allora quelli che hanno timore del Signore si sono parlati l'un l'altro; il Signore è stato attento e ha ascoltato; un libro è stato scritto davanti a lui, per conservare il ricordo di quelli che temono il Signore e rispettano il suo nome. Essi saranno, nel giorno che io preparo, saranno la mia proprietà particolare, dice il Signore degli eserciti; io li risparmierò, come uno risparmia il figlio che lo serve. Voi vedrete di nuovo la differenza che c'è fra il giusto e l'empio, fra colui che serve Dio e colui che non lo serve.
(Malachia 3:16-18)

 

La Pasqua, con la settimana degli Azzimi, viene istituita alla fine di un lungo “braccio di ferro” tra il Signore e Faraone. Arrivati in Egitto in circa 70 persone, i figli di Israele vi erano cresciuti e vi si erano moltiplicati per 430 anni (Genesi 46:27, Esodo 1:7, Esodo 12:40). Con il passare del tempo, da ospiti onorati erano diventati schiavi (servi sottomessi, ma in realtà anche temuti, Esodo 1:9-10).

agnellinoCome schiavi di Faraone, gli Israeliti stavano imparando pure loro a servire nel timore della morte e delle punizioni, come facevano i loro ispettori egiziani che non servivano il loro signore per amore, ma per ottenerne dei vantaggi ed evitare dei problemi. Di fatto, quando il Signore mandò Mosè a parlare con Faraone perché lasciasse andare il suo popolo a servirlo nel deserto e questi per tutta risposta inasprì le condizioni della loro servitù, i figli di Israele se la presero con Mosè (Esodo 5:21) e non vollero ascoltare le parole che il Signore rivolgeva loro per mezzo del suo servo (Esodo 6:9).
Questo “braccio di ferro” non era certo dovuto a una parità di forze tra i due contendenti, ma piuttosto all’indurimento del cuore del faraone, per altro prodotto dallo stesso Signore. Era infatti necessario che Faraone venisse sconfitto in modo miracoloso e spettacolare, perché il faraone d’Egitto e anche  Israele (e, attraverso Israele, tutte le altre nazioni tra cui la nostra) dovevano sapere Chi è il Signore. Mosè lo dice esplicitamente a Faraone (Esodo 9:16) e anche a Israele (Esodo 10:1-2). Nello stesso tempo, doveva essere manifestato il giudizio sulle autorità di questo mondo, o meglio sul modo in cui questo mondo intende l’autorità.

Dare l’esempio
Il modo naturale di intendere l’autorità è quello degli animali: il capo branco, l’animale più rispettato, è il maschio che dimostra di essere il più forte, quello che può affrontare in combattimento e uccidere i maschi più forti del gruppo; viene quindi servito dagli altri e ha a disposizione le femmine migliori. Questo modo naturale di intendere l’autorità è anche il modo delle nazioni pagane. In greco la parola autorità (exousia) significa infatti innanzitutto “permesso”, “licenza”, un senso completamente diverso da quello che l’autorità ha per il Dio di Israele. In ebraico, la radice del verbo che significa “governare”, è infatti la stessa di quella che significa “esempio”. Questo è il senso spirituale di intendere l’autorità: non come un diritto che ci si guadagna con la forza o si riceve per nascita, ma come una responsabilità verso coloro che ci guardano per apprendere da noi.
Questa differenza Gesù l’ha spiegata chiaramente ai suoi discepoli, quando litigavano per decidere chi tra di loro fosse da considerare il primo. Ha detto: “Voi sapete che quelli che son reputati principi delle nazioni le signoreggiano e che i loro grandi le sottomettono al loro dominio. Ma non è così tra di voi; anzi, chiunque vorrà essere grande fra voi, sarà vostro servitore; e chiunque, tra di voi, vorrà essere primo sarà servo di tutti. Poiché anche il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (Marco 10:42-45).
Dopo aver celebrato la Pasqua e aver lavato i piedi ai suoi discepoli, la notte prima di essere arrestato Gesù ha chiarito il senso del suo servizio: "Voi mi chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io" (Giovanni 13:13-15).

Liberati per servire
La frase che Mosè deve continuamente ripetere a Faraone da parte del Signore è: “lascia andare Israele perché mi serva” (Esodo 4:23, 7:16, 8:1, 8:20, 9:1, 9:13, 10:3). La Pasqua esprime il nuovo servizio attraverso cui Israele è liberato dal servizio vecchio dell’uomo naturale per l’uomo naturale più forte di lui. L’uomo naturale, il primo Adamo, che, con la sua disobbedienza, è entrato nella morte (Genesi 2:17 e 3:19) è rappresentato da Faraone, figura della nostra carne che non conosce più il Signore e non è interessata alla sua parola. In Esodo 5:2  Faraone dice proprio: “chi è il Signore che io debba ubbidire alla sua voce e lasciare andare Israele? Io non conosco il Signore e non lascerò affatto andare Israele”.
Paolo scrive ai credenti che “ciò che brama la carne è morte, mentre ciò che brama lo Spirito è vita e pace; infatti ciò che brama la carne è inimicizia contro Dio, perché non è sottomessa alla legge di Dio e neppure può esserlo; e quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio” (Romani 8:6-8). Attraverso Mosè, il Signore mostra agli Israeliti la via per essere liberati dal servizio alla propria carne rappresentato dal servizio a Faraone, servendo non più la morte ma la vita, ed essere così risparmiato dal giudizio. Gesù, “ultimo Adamo” (1Corinzi 15:45), è venuto per portare a compimento quest’opera per Israele e per tutti i popoli della terra: “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5:24).
Avendo ricevuto dal Signore precise istruzioni, Mosè ordina agli anziani di Israele: “Andate a prendere gli agnelli per le vostre famiglie, e immolate la Pasqua” (Esodo 12:21). Il termine Pasqua (pesach) deriva da una radice che significa “passare oltre”, “saltare”, non nel senso del balzo di gioia o di attacco, ma piuttosto dell’incespicare dello zoppo che salta il passo (“zoppo” in ebraico si dice infatti piseach). L’ordine di immolare la Pasqua è spiegato con quello che segue: “prendete un mazzetto d'issopo, intingetelo nel sangue [dell’agnello] che sarà nel catino e con quel sangue spruzzate l'architrave e i due stipiti delle porte. Nessuno di voi varchi la porta di casa sua, fino al mattino. Infatti, il Signore passerà (ve-‘avar YHWH) per colpire gli Egiziani; e, quando vedrà il sangue sull'architrave e sugli stipiti, allora il Signore passerà oltre (u-phasach YHWH) la porta e non permetterà allo sterminatore di entrare nelle vostre case per colpirvi. Osservate dunque questo come un'istituzione perenne per voi e per i vostri figli. Quando sarete entrati nel paese che il Signore vi darà, come ha promesso, osservate questo servizio (‘avodah). Quando i vostri figli vi diranno: "Che significa per voi questo servizio?" risponderete: "Questo è il sacrificio della Pasqua in onore del Signore, il quale passò oltre le case dei figli d'Israele in Egitto, quando colpì gli Egiziani e salvò le nostre case"» (Esodo 12:22-27) .
In ebraico, avodah, la parola che abbiamo tradotta con servizio, viene correntemente usata per indicare sia il servizio secolare, cioè il lavoro, sia il servizio nel tempio, il culto (per questo altri in questo passo la traducono rito, o atto di culto). Di fatto, in occasione della Pasqua, tutti gli anziani di Israele sono stati chiamati a servire Dio come sacerdoti per la salvezza delle loro famiglie. Prima ancora che fosse data la Legge, con gli statuti per il sacerdozio a cui per altro sono stati destinati esclusivamente i figli di Levi (cioè solo una delle dodici tribù di Israele, quella a cui appartenevano Mosè e suo fratello Aronne), in questo giorno di Pasqua ogni capo-famiglia in Israele viene costituito sacerdote per compiere un sacrificio a pro dei suoi, segnando la propria casa con il sangue della vittima sacrificale.

Due tipi di primogeniti
Nella vita della famiglia, il nuovo senso dell'autorità introdotto dal Signore nella casa di Israele si esprime nel nuovo senso che prende il ruolo del primogenito. Nella prima famiglia, il primogenito, Caino, aveva invidiato e odiato Abele suo fratello più giovane (Genesi 4:5-8). Nell'ultima famiglia, inaugurata da Israele, il primogenito dà l'esempio ai suoi fratelli, prendendosene cura secondo il desiderio del padre.
Il tema della primogenitura è introdotto e ampiamente sviluppato nel libro della Genesi. A proposito dei due gemelli ancora in seno a Rebecca, moglie di Isacco e madre di Giacobbe (Israele), il Signore aveva annunciato questo principio: “il maggiore servirà il minore” (Genesi 25:23). La storia di molti altri fratelli nei capitoli precedenti e successivi ci mostra il significato spirituale di questo principio. Il vero primogenito non è colui che può arrogarsi gli stessi diritti del padre (come fece Ruben, primogenito di Giacobbe, che “si unì a Bila, concubina di suo padre” Genesi 35:22), ma quello che ha verso i suoi fratelli lo stesso amore e la stessa cura del loro padre e li serve educandoli con pazienza. Certo non perché diventino dei tiranni e manchino di rispetto a quelli che sono più anziani di loro (nella Legge è anzi scritto di onorare la persona del vecchio, Levitico 19:32), ma piuttosto perché possano imparare a servire quelli che verranno dopo di loro. Questo è il destino di quelli che amano il Signore “perché quelli che ha preconosciuti, li ha pure predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli” (Romani 8:29).
Israele era stato benedetto da suo padre Isacco con “la benedizione di Abramo” (Genesi 28:3-4), perché Abramo era stato a sua volta benedetto da Dio per diventare fonte di benedizione per tutte le famiglie della terra (Genesi 12:2-3). Lo scopo di Dio è di benedire chi desidera essere di benedizione. Suoi figli sono coloro che camminano secondo il suo Spirito (Romani 8:14), desiderano cioè compiere l’opera di Colui che li ha generati e che li manda a servire. Non cercano vantaggi per se stessi e non servono per ricevere un salario. Questo sarebbe servire per essere serviti. Piuttosto riconoscono di essere stati serviti da Dio per ricevere un esempio e servire a loro volta, appunto come il primogenito che vuole collaborare con il padre serve i suoi fratelli più piccoli. L’amore per Dio deve esprimersi nell’amore per i suoi figli. E Gesù è arrivato a dire che tutto quello che avremo fatto o non fatto ai suoi fratelli più piccoli l’avremo fatto o non fatto proprio a lui (Matteo 25:40 e 45).

Due padroni
Il conflitto tra Dio e Faraone può quindi molto bene riassumersi nelle parole che fin dal principio il Signore incaricò Mosè di riferire a quel sovrano: “Tu dirai al faraone: Così dice il Signore: Israele è mio figlio, il mio primogenito, e io ti dico: Lascia andare mio figlio perché mi serva; se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io ucciderò tuo figlio, il tuo primogenito” (Esodo 4:22-23).
Per questo Il Signore indurisce il cuore del faraone, in modo che si rifiuti di obbedirgli e non si possano trovare compromessi. Non c’è infatti possibile conciliazione tra i due padroni, cioè tra i due opposti modi di servire. Gesù lo dice espressamente: “Nessuno può servire due padroni; perché o odierà l'uno e amerà l'altro, o avrà riguardo per l'uno e disprezzo per l'altro. Voi non potete servire Dio e Mammona” (Matteo 6:24). Mammonah è una parola aramaica che sta per “mucchio”, “gruzzolo” (capitale): le ricchezze che accumuliamo perché ci possono servire, ma che intanto dirigono la nostra vita, facendosi così servire loro. Il denaro può certamente servire (anche Gesù lo faceva tenere in una borsa per le elemosine e verosimilmente perché i suoi potessero comprarsi da mangiare; per le stesse ragioni è scritto di guadagnarsi di che vivere, Efesini 4:28), ma se lo desideriamo come un bene per noi, finiamo per diventare suoi servi, e non lo usiamo più per servire gli altri, ma per essere serviti. In sé il denaro non ha niente di bello o di utile, è desiderabile solo perché rappresenta il potere di farsi servire, cioè il sistema di potere che è sotto giudizio. Per questo la Scrittura ci dice che “l'amore del denaro è radice di ogni specie di mali; e alcuni che vi si sono dati, si sono sviati dalla fede e si sono procurati molti dolori” (1Timoteo 6:10).
Se si serve per essere serviti non si serve davvero nel senso pieno della parola, che è quello in cui serve il servo del Signore. Lo scopo delle nostre azioni è il loro vero senso e ciò che le qualifica: se quello che si vuole è essere serviti allora, anche se serviamo qualcuno, lo facciamo in realtà per il nostro vantaggio, cioè per servire noi stessi, il faraone che vive – o meglio che muore – dentro ciascuno di noi. Il rapporto è un rapporto di interesse, come lo sono per definizione (e, in qualche modo, onestamente) i rapporti commerciali e come (più subdolamente) lo è in ogni dittatura quello tra il popolo e il suo capo. In questo senso, Faraone e il suo servizio è figura dell’uomo naturale, cioè dell’uomo vecchio, l’uomo che deve necessariamente essere sconfitto e morire.
Questo modo di intendere l’autorità come potere sugli altri – nonostante la legge e tutte le parole dei profeti – era ostinatamente rimasto in Israele fino ai tempi di Cristo, in particolare tra gli scribi e i Farisei. Per difendere la loro posizione, arrivavano al punto di insinuare che Gesù scacciasse i demoni con l’autorità del diavolo. A loro Gesù rispose con parole  molto dure, in cui è tra l'altro contenuto un riferimento all'esclamazione dei maghi del Faraone quando - com'è raccontato in Esodo 8:19 - si arresero di fronte a Mosè riconoscendo che attraverso di lui si manifestava il “dito di Dio”. Gesù disse: “Se anche Satana è diviso contro se stesso, come potrà reggere il suo regno? Poiché voi dite che è per l'aiuto di Belzebù che io scaccio i demoni. E se io scaccio i demoni con l'aiuto di Belzebù, con l'aiuto di chi li scacciano i vostri figli? Perciò, essi stessi saranno i vostri giudici. Ma se è con il dito di Dio che io scaccio i demoni, allora il regno di Dio è giunto fino a voi. Quando l'uomo forte, ben armato, guarda l'ingresso della sua casa, ciò che egli possiede è al sicuro; ma quando uno più forte di lui sopraggiunge e lo vince, gli toglie tutta l'armatura nella quale confidava e ne divide il bottino. Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde” (Luca 11:18-23).
La notte di Pasqua il Signore annuncia la sua vittoria sul sistema di potere impersonato dal faraone d’Egitto e da tutti i suoi dèi. “Quella notte io passerò per il paese d'Egitto, colpirò ogni primogenito nel paese d'Egitto, tanto degli uomini quanto degli animali, e farò giustizia di tutti gli dèi d'Egitto. Io sono il Signore” (Esodo 12:12).
Anche oggi “il nostro combattimento non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti” (Efesini 6:12). L’opera di liberazione dall’asservimento dell’uomo alla morte è stata compiuta quando Cristo Gesù: “ha spogliato i principati e le potenze, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro per mezzo della croce” (Colossesi 2:13-15).
Se combattiamo da soli – cioè non con Cristo – abbiamo già perso, anche perché se pensiamo di poter combattere da soli siamo guidati dalla stessa presunzione e dallo stesso egoismo che vorremmo sconfiggere.

Ripresa e profezia
L’uomo forte, il dittatore che è dentro di noi, deve essere spogliato di tutta la sua forza, deve morire per non risorgere più. La storia del faraone d’Egitto è una figura della necessità di un completo rinnovamento della nostra vita. Il faraone e la sua resistenza rappresentano la resistenza della nostra carne, che deve essere abbassata e afflitta in vari modi perché non si innalzi nella sua presunzione, ma che non sarebbe utile né sufficiente togliere semplicemente di mezzo. Dio infatti non trova nessun piacere nella morte di chi muore, ma vuole che ci convertiamo per vivere (Ezechiele 18:32). Per questo non sarebbe bastato uccidere il faraone, né la sua morte avrebbe in se stessa prodotto alcunché di buono. Per vincere davvero il male occorre il bene (Romani 12:21).
Anche la prima volta che Dio aveva deciso di spazzare via la corruzione dell’uomo, aveva allo stesso tempo pianificato la sua salvezza, ordinando a Noè, che era stato trovato giusto nella sua generazione, di costruire un’arca e di farvi entrare la sua famiglia e delle coppie di tutti i tipi di animali che si riproducevano sulla terra (Genesi 6:9-7:5), perché si conservasse la creazione di Dio e il ricordo della sua misericordia. Noè obbedì all’ordine di Dio e seguendo le istruzioni del Signore si dedicò a costruire un mastodontico vascello per salvare l’umanità, assieme alle specie animali della terra e del cielo.
Al tempo di Mosè, il modo “egiziano” di intendere la primogenitura doveva essere completamente distrutto, ma perché ciò non si esaurisse semplicemente nella distruzione di una dinastia, occorreva che fosse presentato il nuovo modo di essere primogeniti, quello di Israele, da cui doveva discendere il figlio di Dio, “l’agnello che è stato immolato” (Apocalisse 5:6, 5:12, 13:8). Lo sterminio dei primogeniti degli Egiziani era infatti in vista della consacrazione dei primogeniti di Israele. Il Signore ha dichiarato suo ogni primogenito in Israele: “ogni primo parto, sia tra gli uomini, sia tra gli animali”(Esodo 13:2 e 12). Questa consacrazione comportava che i primogeniti degli animali puri fossero sacrificati al Signore, come li aveva sacrificati Abele la cui offerta il Signore guardò con favore (Genesi 4:4) e che gli uomini e gli animali impuri (come l’asino) dovessero essere riscattati.
Il primo riscatto era stato pagato con il sacrificio dell’agnello che bisognava immolare per aspergerne il sangue come segno di obbedienza sugli stipiti e l’architrave della porta di casa, e per mangiarne la carne, assieme a pani azzimi ed erbe amare (Esodo 12:8). Israele era stato infatti istruito a mettere da parte, già tre giorni prima della Pasqua, un agnello dell’anno senza difetto. Grazie al sangue di quel sacrificio, i primogeniti delle case d’Israele sarebbero stati risparmiati. L’agnello doveva essere consumato in casa. Tutti i membri della famiglia dovevano rimanere quella notte all’interno della casa, come Noè e la sua famiglia erano dovuti rimanere chiusi nell’arca per un anno intero.
Ma quella notte chiusi in casa non è solo un ricordo dell’anno passato da Noè nell’arca, è anche un’anticipazione del rifugio che il popolo di Dio troverà nel Signore da tutte le manifestazioni della sua ira e in particolare dal fuoco e dallo zolfo riservati per il diavolo e i suoi servi. “Va', o mio popolo, entra nelle tue camere, chiudi le tue porte, dietro a te; nasconditi per un istante, finché sia passata l'indignazione. Poiché, ecco, il Signore esce dal suo luogo per punire l'iniquità degli abitanti della terra” (Isaia 26:20-21).
Quando ha benedetto Noè e i suoi figli il Signore ha promesso che non distruggerà più la terra con le acque del diluvio (Genesi 9:11). Questa promessa non equivale però a una totale immunità per i figli dell’uomo. “Ecco, il nome del Signore viene da lontano; la sua ira è ardente, grande è il suo furore; le sue labbra sono piene d'indignazione, la sua lingua è come un fuoco divorante (…) Il SIGNORE farà udire la sua voce maestosa e mostrerà come colpisce col suo braccio nel furore della sua ira, nella fiamma di un fuoco divorante, in mezzo a esplosioni violente, uragano e grandine di pietre.” (Isaia 30:27 e 30).
Le  piaghe con cui Dio ha spogliato della sua forza Faraone e l’Egitto, anticipano i guai annunciati per il mondo di oggi dalla profezia di Giovanni scritta nell’Apocalisse e anche dallo stesso Gesù nei suoi discorsi profetici (Matteo 24:4-51 e Luca 21:8-36). Come le piaghe sull’Egitto, i guai annunciati dall’Apocalisse non sono per il nostro male, ma per vincere definitivamente il sistema di potere che il Signore ha cominciato a svergognare quando ha giudicato l’Egitto e i suoi dèi (Esodo 12:12). Per questo all’annuncio delle calamità degli ultimi tempi, Gesù nel suo discorso aggiunge una postilla per noi suoi discepoli: “quando queste cose cominceranno ad avvenire, rialzatevi, levate il capo, perché la vostra liberazione si avvicina” (Luca 21:28)

Due battesimi nel fuoco
Il Signore aveva detto a Mosè che l’agnello pasquale non doveva essere bollito nell’acqua ma arrostito con il fuoco (Esodo 12:9). La Pasqua di Israele è figura della salvezza dal giudizio che pesa su questo mondo, la liberazione preparata per coloro che si saranno "convertiti dagl'idoli a Dio, per servire il Dio vivente e vero, e per aspettare dai cieli il Figlio suo che egli ha risuscitato dai morti; cioè, Gesù che ci libera dall'ira imminente" (1Tessalonicesi 1:10).
Da Giovanni il battista (ultimo rappresentante della Legge e dei profeti, Matteo 11:13), Gesù è stato riconosciuto come “l'agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo” (Giovanni 1:29). Riferendosi al suo sacrificio, Gesù ha detto ai suoi discepoli “vi è un battesimo del quale devo essere battezzato; e sono angosciato finché non sia compiuto!” (Luca 12:50). Questo battesimo non è il battesimo con il fuoco dello Spirito Santo, un fuoco che come quello del pruno ardente visto da Mosè sul monte Horeb all’inizio della sua chiamata (Esodo 3:2) non consumava nessuna materia, ma un battesimo in cui Gesù sarebbe stato arrostito a fuoco vivo e consumato per intero, come l’agnello della prima Pasqua. Un fuoco come quello che nel giorno del Signore consumerà ogni cosa (2Pietro 3:7).
Paolo scrive di badare ai materiali con cui edifichiamo, se “con oro, argento, pietre di valore, legno, fieno, paglia” perché “l'opera di ognuno sarà messa in luce; infatti il giorno di Cristo la renderà visibile; poiché quel giorno apparirà come un fuoco; e il fuoco proverà quale sia l'opera di ciascuno” (1Corinzi 3:12-13). “Il nostro Dio è anche un fuoco consumante” (Ebrei 12:29).
Lasciandosi immergere nel fuoco infernale della morte, Gesù ha aperto una via di speranza per noi, perché ci ha comunicato un fuoco interiore che non brucia fisicamente, come non bruciavano fisicamente le lingue di fuoco che sono scese sulle teste dei credenti il giorno della Pentecoste (Atti 2:3), ma che vince sul fuoco del giudizio che pesa su questo mondo. “La misericordia trionfa sul giudizio” (Giacomo 2:13). Infatti, immediatamente prima di parlare del suo olocausto e della sua angoscia per questo prossimo battesimo, Gesù ha parlato del fuoco dello Spirito, quando ha detto “Io sono venuto ad accendere un fuoco sulla terra; e che mi resta da desiderare, se già è acceso?” (Luca 12:49). Anche Giovanni aveva detto di lui: “Io vi battezzo con acqua, in vista del ravvedimento; ma colui che viene dopo di me è più forte di me, e io non sono degno di portargli i calzari; egli vi battezzerà con lo Spirito Santo e con il fuoco” (Matteo 3:11). È grazie a questo stesso fuoco che è venuto ad accendere sulla terra che Gesù si è lasciato sacrificare ed è perché si è lasciato sacrificare per noi che, come dice Paolo, “l'amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, mentre noi eravamo ancora senza forza, Cristo, a suo tempo, è morto per gli empi. Difficilmente uno morirebbe per un giusto; ma forse per una persona buona qualcuno avrebbe il coraggio di morire; Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.” (Romani 5:5-8).
Se crediamo a Gesù Cristo e al suo sacrifico, il nostro cuore si riscalda di nuovo e dalla morte dell’indifferenza passiamo a una vita di amore. Per coloro che credono in lui il Signore ha infatti dato del suo Spirito Santo. Avendo il fuoco del Signore dentro di noi, potremo sopportare il fuoco di fuori. “Poiché, ecco, il giorno viene, ardente come una fornace; allora tutti i superbi e tutti i malfattori saranno come stoppia. Il giorno che viene li incendierà, dice il Signore degli eserciti, e non lascerà loro né radice né ramo. Ma per voi che avete timore del mio nome spunterà il sole della giustizia, la guarigione sarà nelle sue ali; voi uscirete e salterete, come vitelli fatti uscire dalla stalla” (Malachia 4:1-2).

Pasqua di risurrezione
Attraverso i prodigi e le calamità mandate sull’Egitto, il Signore si rivela a Israele e anche agli Egiziani come l’Io Sono che può fare accadere le cose al suo comando. Mosè ha deciso di conoscere il Signore e di servirlo servendo il suo popolo Israele, Faraone dichiara invece di non conoscere il Signore e di non volerlo ubbidire. “Chi è il Signore che io debba ubbidire alla sua voce e lasciare andare Israele? Io non conosco il Signore e non lascerò affatto andare Israele” (Esodo 5:2). In queste due figure si fronteggiano due diversi e opposti atteggiamenti dell’uomo. La storia di Mosè e del popolo di Israele non è solo una storia. Le cose che sono successe a Israele in quei tempi, sia in bene che in male, “avvennero loro per servire da esempio e sono state scritte per ammonire noi, che ci troviamo nella fase conclusiva delle epoche” (1Corinzi 10:11).
Di fatto la storia di Israele comincia con l’obbedienza a Dio di Abramo (suo nonno), che, al comando del Signore, uscì da Ur dei Caldei. La fede di Abramo cresce negli anni della sua vita fino al punto in cui è pronto a sacrificare al Signore il figlio che aveva tanto atteso e dal quale, secondo la promessa di Dio, sarebbe venuta la sua progenie. “Per fede Abramo, quando fu messo alla prova, offrì Isacco; egli, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito. Eppure Dio gli aveva detto: È in Isacco che ti sarà data una discendenza. Abraamo era persuaso che Dio è potente da risuscitare anche i morti; e riebbe Isacco come per una specie di risurrezione” (Ebrei 11:17-19).
La parola fede si riferisce alla certezza di un rapporto, qualcosa che comincia da cose più piccole e che richiede tempo per crescere. La paura che gli Israeliti avevano del faraone e della morte non cessa di esercitare la sua influenza anche dopo che ebbero ottenuto il permesso di uscire dall’Egitto (e anzi ne furono mandati via coperti di doni, purché se ne andassero, Esodo 12:36). Infatti, quando “il cuore del faraone e dei suoi servitori mutò sentimento verso il popolo, e quelli dissero: Che abbiamo fatto rilasciando Israele? Non ci serviranno più! (…) li inseguirono (…) e li raggiunsero mentre essi erano accampati presso il mare” (Esodo 14:5 e 9)”, “allora i figli d'Israele ebbero una gran paura, gridarono al Signore, e dissero a Mosè: Mancavano forse tombe in Egitto, per portarci a morire nel deserto? Che cosa hai fatto, facendoci uscire dall'Egitto? Era appunto questo che ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare, ché serviamo gli Egiziani! Poiché era meglio per noi servire gli Egiziani che morire nel deserto” (Esodo 14:10-12).
Il cammino di Israele era appena iniziato. Il faraone d’Egitto era ancora vivo, e non solo nei loro cuori. Il Signore allora organizzò un altro “diluvio”, sommergendo miracolosamente nel mare l’esercito degli Egiziani e facendo camminare all’asciutto il popolo di Israele. L’attraversamento del mare, come l’arca di Noè molti secoli prima, rappresenta la nuova nascita che viene dichiarata nel battesimo (1Pietro 3:21 parlando del battesimo in acqua, si ricollega esplicitamente al diluvio e all’arca). Non si tratta di un traguardo, ma ancora solo di un, seppur glorioso, punto di partenza. D’altra parte, nel vero principio sta anche la fine. Entrando nel mare, come nell’acqua del battesimo, accettando cioè di essere morti (come pecore destinate al macello, Salmi 44: 11 e 22, Zaccaria 11:4 e 7,  citato in Romani 8:36), veniamo anche risparmiati, come alla fine è stato risparmiato Isacco. E difatti il battesimo è per definizione un’immersione solo temporanea. Inoltre, se accettiamo la prima morte (rappresentata dall’immersione nell’acqua del battesimo), cioè quella del corpo, veniamo a scampare la seconda, la morte dell’anima, rappresentata dal fuoco dell’olocausto attraverso cui passa l’agnello pasquale con il cui sangue si è identificato Israele, e si identificano oggi anche tutti coloro che credono al sacrificio di Gesù Cristo.  
Se prima di credere eravamo soprattutto preoccupati per la nostra incolumità, nella misura in cui cresce la nostra fede, la vita che ci è stata comunicata ci infonde coraggio e ci spinge a dare anche noi a nostra volta la vita in sacrificio vivente a Dio. “Infatti l'amore di Cristo ci costringe, perché siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono; e che egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per sé stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (2Corinzi 5:14-15). Mentre la morte di colui che si rifiuta di rinunciare a se stesso per servire Dio è una via senza ritorno, chi accetta di camminare per lo Spirito (quindi contrariamente ai desideri della sua carne,  Galati 5:16-17) entra nella vita dei figli di Dio e non muore più. “Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la propria vita per amor mio, la salverà” (Luca 9:24).
Credere al Signore significa accettare la verità della sua parola, che ci dice che l’uomo naturale, il primo Adamo, deve comunque morire, perché siamo polvere e polvere ritorneremo (Genesi 3:19). Ma proprio quando accetta di dover morire, l’uomo è liberato dall’inganno delle ricchezze che promettono di rimandare la morte a chi le possiede o minacciano di avvicinarla a chi non le serve. La parola di Dio si è fatta carne per dimostrare la sua verità nella vita dell’uomo. “Poiché dunque i figli hanno in comune sangue e carne, egli pure vi ha similmente partecipato, per distruggere, con la sua morte, colui che aveva il potere sulla morte, cioè il diavolo, e liberare tutti quelli che dal timore della morte erano tenuti schiavi per tutta la loro vita” (Ebrei 2:14-15).
Riconoscendo che Gesù è morto per noi, facciamo come Israele che ha segnato le sue case con il sangue dell’agnello e come Israele veniamo salvati dal giudizio in cui questo mondo non potrà rimanere in piedi. “Perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. Difatti la Scrittura dice: Chiunque crede in lui, non sarà deluso” (Romani 10:9-11). La confessione di Gesù come Signore corrisponde a un’affermazione di vittoria sul regno della morte e ci porta a entrare nel glorioso destino di Israele. “Quando dovrai attraversare le acque, io sarò con te; quando attraverserai i fiumi, essi non ti sommergeranno; quando camminerai nel fuoco non sarai bruciato e la fiamma non ti consumerà” (Isaia 43:2).
Se anche noi, come Pietro, crediamo e affermiamo che Gesù è il figlio del Dio vivente, ci appoggiamo sulla stessa roccia su cui è edificata la Chiesa del Signore Gesù, e “le porte dell’Ades non la potranno vincere” (Matteo 16:18). Gesù ha potuto dire a Marta sorella di Lazzaro, quando questi era nel sepolcro già da quattro giorni: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in me non morirà mai” (Giovanni 11:25-26).
Cinquanta giorni dopo l’ultima pasqua di Gesù, Pietro, pieno di Spirito Santo, predicò il vangelo della resurrezione alla folla riunita in Gerusalemme per la festa della Pentecoste: “Uomini d'Israele, ascoltate queste parole! Gesù il Nazareno, uomo che Dio ha accreditato fra di voi mediante opere potenti, prodigi e segni che Dio fece per mezzo di lui, tra di voi, come voi stessi ben sapete, quest'uomo, quando vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e la prescienza di Dio, voi, per mano di iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste; ma Dio lo risuscitò, avendolo sciolto dagli angosciosi legami della morte, perché non era possibile che egli fosse da essa trattenuto. Infatti Davide dice di lui: "Io ho avuto il Signore continuamente davanti agli occhi, perché egli è alla mia destra, affinché io non sia smosso. Per questo si è rallegrato il mio cuore, la mia lingua ha giubilato e anche la mia carne riposerà nella speranza; perché tu non lascerai l'anima mia nell'Ades, e non permetterai che il tuo Santo subisca la decomposizione. Tu mi hai fatto conoscere le vie della vita. Tu mi riempirai di gioia con la tua presenza"” (Atti 2:22-28).
Vivendo con Cristo, non più per noi stessi ma per servire gli altri, siamo liberati dalla paura della morte non solo perché crediamo nella resurrezione dei corpi, ma anche e soprattutto perché siamo diventati delle nuove creature. E la morte del corpo per noi non significa più la fine della possibilità di usare delle cose di questo mondo, ma segna semplicemente la fine del nostro servizio.
Come ha scritto Paolo: “per me il vivere è Cristo e il morire guadagno” (Filippesi 1:21). O come ha esclamato quell’uomo giusto e timorato di Dio, Simeone, a cui era stato rivelato che non sarebbe morto prima di vedere il Cristo del Signore, e che, quando vide Gesù appena nato presentato al Tempio dai suoi genitori, lo prese in braccio e benedicendo Dio disse: “ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza” (Luca 2:29).

Azzimi della sincerità
Gli Israeliti avevano ricevuto l’ordine di non mangiare pane lievitato per tutta la settimana inaugurata dalla Pasqua (Esodo 12:18). In seguito, soprattutto dopo la distruzione del Tempio a Gerusalemme e la conseguente impossibilità di immolare sacrifici animali, la Pasqua diventerà innanzitutto la festa degli Azzimi. La festa con la quale Israele si impegna a mantenere la purezza di cuore ottenuta mediante la liberazione dalla servitù all’Egitto. “Per sette giorni non si trovi lievito nelle vostre case, perché chiunque mangerà qualcosa di lievitato, sarà eliminato dalla comunità d'Israele, sia egli straniero o nativo del paese” (Esodo 12:19).
Il lievito rappresenta l’impurità che non deve contaminare Israele. L’amore di Dio ha vinto la morte perché è assolutamente puro “non si vanta, non si gonfia, (…) non cerca il proprio interesse” (1Corinzi 13:5). Quando invece cerchiamo il nostro interesse, diventiamo incapaci di dedicare la nostra vita al servizio degli altri. Se in noi non c’è il puro amore di Dio, non possiamo servire il Signore a pro dei suoi figli, perché alla minima difficoltà ci sentiremo sopraffatti e verremo meno, come è venuto meno Giuda Iscariota, che alla fine ha venduto il suo maestro passando dalla parte del nemico. “Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga, e il lupo le rapisce e disperde. Il mercenario [si dà alla fuga perché è mercenario e] non si cura delle pecore” (Giovanni 10:12-13).
Invece di parlare perché abbiamo creduto (come scrive di se stesso Davide, Salmi 116:10),  cominciamo a usare le parole per manipolare e ingannare gli altri e per farci belli ai loro occhi. Il nostro scopo non è più servire, ma di nuovo essere serviti. Come i farisei, ci ammantiamo di pietà solo per apparire santi davanti alla gente (Matteo 6:5), ma dentro di noi siamo pieni di avidità (Matteo 23:27), perché in fondo al nostro cuore amiamo il denaro e il potere che ci conferisce, come facevano loro (Luca 16:14). Per questo Gesù ha detto ai suoi “Guardatevi dal lievito dei farisei, che è ipocrisia” (Luca 12:1). Anche Paolo ha spiegato in questo stesso modo il senso della festa degli azzimi. “Il vostro vanto non è una buona cosa. Non sapete che un po' di lievito fa lievitare tutta la pasta? Purificatevi del vecchio lievito, per essere una nuova pasta, come già siete senza lievito. Poiché anche la nostra Pasqua, cioè Cristo, è stata immolata. Celebriamo dunque la festa, non con vecchio lievito, né con lievito di malizia e di malvagità, ma con gli azzimi della sincerità e della verità” (1Corinzi 5:6-8).
L’uscita dall’Egitto e la vittoria sul regno della morte hanno delle conseguenze pratiche nella vita di ogni giorno e nei rapporti con gli altri, perché se la morte è stata vinta allora possiamo smettere di desiderare la gloria degli uomini e di temere di perdere, presso di loro, il credito che ci serve per vivere. “Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra; poiché voi moriste e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, la vita nostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con lui manifestati in gloria” (Colossesi 3:1-4).
La settimana degli azzimi simbolizza la purezza della nuova vita nell’amore del Signore che ci ha liberati dalla nostra schiavitù. Avendoci accertato dell’amore e della cura del Padre nostro che è nei cieli, Gesù ci ha anche esortato a non preoccuparci più delle cose di questa terra. “Non siate dunque in ansia, dicendo: Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo? Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più” (Matteo 6:31-33). Se crediamo alla resurrezione di Cristo e lo dichiariamo nostro Signore, allora veramente possiamo desiderare innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e non per le altre cose che ci verranno aggiunte, ma proprio perché sappiamo che il regno di Dio è l’unico regno vero, perché “è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Romani 14:17).
La festa degli azzimi richiedeva (e tuttora richiede nelle case degli ebrei osservanti) una completa e accurata purificazione dai lieviti, ma questa ricerca e questa eliminazione fisica di ogni possibile ricettacolo di contaminazione è evidentemente figura di un esame che dobbiamo fare nel nostro cuore, per vedere se è veramente consacrato al Signore. Paolo scrive: “Esaminatevi per vedere se siete nella fede; mettetevi alla prova. Non riconoscete che Gesù Cristo è in voi? A meno che l'esito della prova sia negativo” (2Corinzi 13:5).
Essere puri nel nostro cuore significa vivere come Gesù, cercando non il nostro regno, ma quello di Dio. “Chi parla di suo cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che l'ha mandato, è veritiero e non vi è ingiustizia in lui” (Giovanni 7:18). Gesù ha detto: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Matteo 5:8). Infatti i puri di cuore sono precisamente coloro che desiderano innanzitutto vedere Dio. Coloro che hanno risposto all’invito del Signore, dando a Dio il loro cuore (Proverbi 23:26), per acquistare la sapienza che viene dall'alto, che “anzitutto è pura, poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia” (Giacomo 3:17).  Coloro che sono alla ricerca della sapienza e dell’intelligenza che vengono dal timore di Dio e dalla conoscenza del Santo. “Il principio della sapienza è: Acquista la sapienza; sì, a costo di quanto possiedi, acquista l'intelligenza (…) Il principio della sapienza è il timore del Signore, e conoscere il Santo è l'intelligenza.” (Proverbi 4:7 e 9:10).
Dopo aver creduto al Signore ed essere stati liberati dai nostri peccati attraverso il sacrificio espiatorio dell’Agnello di Dio, iniziando così il cammino verso la Terra promessa, come Israele nel deserto. Per arrivare alla meta del nostro viaggio, dobbiamo imparare a camminare con il nostro Dio, in sincerità e purezza di cuore. L’insincerità e le discordie vengono dalle nostre passioni e dai nostri desideri, cioè dalla nostra carnalità e non devono corrompere i rapporti tra i credenti nel popolo di Dio (Atti 5:1-11, Giacomo 4:1-5). Ma se camminiamo guidati dallo Spirito di Dio non seguiremo i nostri desideri (Galati 5:16), perché lo Spirito di Dio ama la verità e odia le discordie e gli inganni.

Impegnatevi a cercare la pace con tutti e la santificazione senza la quale nessuno vedrà il Signore. (Ebrei 12:14).

Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e sapienza. Ma se avete nel vostro cuore amara gelosia e spirito di contesa, non vi vantate e non mentite contro la verità.
(Giacomo 3:13-14).

Se diciamo che abbiamo comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, noi mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, com'egli è nella luce, abbiamo comunione l'uno con l'altro, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato.
Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non aver peccato, lo facciamo bugiardo, e la sua parola non è in noi.
(1Giovanni 1:6-10)

Perciò, bandita la menzogna, ognuno dica la verità al suo prossimo perché siamo membra gli uni degli altri.
(Efesini 4:25)

Non mentite gli uni agli altri, perché vi siete spogliati dell'uomo vecchio con le sue opere, e vi siete rivestiti del nuovo, che si va rinnovando in conoscenza a immagine di Colui che l'ha creato.
(Colossesi 3:9-10)